Quando facendo l’esercito abbiamo fatto gli italiani

Una storia dell’esercito italiano è, in realtà, una storia d’Italia esaminata da un punto di vista originale e complesso: l’esauriente saggio di Gianni Oliva (Soldati e ufficiali, Mondadori, pagg. 338, euro 20) va infatti dal 4 maggio 1861, data di nascita del nostro esercito nazionale, al 1° gennaio 2005, quando si concluse l’epoca della coscrizione obbligatoria. In mezzo, un mare di fatti: guerre, imprese coloniali, colpi di stato, il passaggio dalla monarchia alla repubblica, fino alle attuali missioni all’estero.
È anche una storia dell’Italia civile alle prese con «la naja»: la scoperta di città sconosciute, il nonnismo, i tentativi di evitare la leva e, all’opposto, l’entusiasmo di chi si rafferma perché nell’esercito trova una famiglia, prima ancora che un lavoro.
Con un tema così è difficile approfondire ogni aspetto ma - nell’imminenza dei 150 anni dell’Unità, che si celebreranno nel 2011 - la parte che avrei voluto più sviluppata nel libro di Oliva è quella che riguarda il primo decennio del nostro esercito: la prima guerra che dovette affrontare, una vera guerra civile, chiamata «lotta al brigantaggio».
Il Risorgimento viene da tempo sottoposto una revisione storiografica che ne abbassa realisticamente i toni da libro Cuore, travasati per oltre un secolo nei testi di storia, in particolare di quelli scolastici. L’ultimo volume dissacrante è di Gigi Fiore, Controstoria dell’Unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento (Rizzoli, pagg. 464, euro 19,50), ma ricordiamo anche i meno recenti... E furono detti briganti, a cura di Antonio Nicoletta (Emanuele Romeo Editore), e quello di Salvatore Scarpino, La guerra «cafona» (Boroli).
Il nucleo iniziale dell’esercito era composto da 180mila uomini, tutti delle regioni centrosettentrionali. Il reclutamento nazionale entrò a regime soltanto nel 1863, ma la renitenza alla leva toccò punte del cinquantasette per cento a Napoli e del quarantaquattro per cento a Palermo, con una media altissima nel Sud.
Lo Stato italiano veniva sentito come un corpo estraneo e invasore, portatore di leggi e balzelli: il Vaticano non aiutava di certo, dando ospitalità ai renitenti entro i confini dello Stato Pontificio, mentre il clero li ospitava nelle chiese e nei conventi.
Il «brigantaggio» - sostenuto dai Borboni in esilio, dal clero, da veri briganti e dalla popolazione civile – fu una rivolta di massa, sociale e politica. Era la prima, dura prova dello Stato unitario, sulla quale si giocava la sua credibilità internazionale; e lo Stato, nel periodo 1861-1864, impiegò quasi metà dell’esercito per vincere la ribellione. Il 15 agosto 1863 fu approvata la legge Pica, che estendeva la repressione alla popolazione civile, ovvero a chiunque fornisse ai «briganti» viveri, informazioni «ed aiuti in ogni maniera». Con questo strumento operarono i generali più illustri, Alfonso La Marmora, Enrico Cialdini, Enrico Morozzo della Rocca, Giacomo Medici, Raffaele Cadorna.
Intere regioni furono sottoposte a un vero e proprio regime di occupazione, ebbero villaggi incendiati, coltivazioni distrutte e lutti - decine di migliaia, non si sa quanti - dovuti ai «piemontesi», che fecero sparire la documentazione relativa. La crudeltà fu estrema da entrambe le parti. La popolazione considerava i briganti eroi coraggiosi contro un invasore.
Ancora ottanta anni dopo Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli, scrisse: «Non c’è famiglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel tempo risalgono gli odi che dividono il paese tramandati per le generazioni, e sempre attuali. Ma, salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti...»
Non è possibile capire il successivo rapporto Nord-Sud, fino ai nostri giorni, se non si tiene conto di quegli eventi. L’Italia settentrionale assistette inorridita alla guerra, per quanto si cercasse di nasconderne la gravità, e molti cominciarono a chiedersi se annettere «quei selvaggi» era stato un bene. Alla fine del 1865, la lotta al «brigantaggio» era ormai vinta, anche se durerà almeno fino all’annessione dello Stato della Chiesa. La rivolta fu stroncata senza che peraltro venisse risolto il problema della criminalità, né tanto meno quello della sopravvivenza quotidiana dei più poveri.
Il governo centrale si era imposto, l’Unità era salva grazie all’esercito, ma a caro prezzo. Scrive Gianni Oliva: «L’introduzione del regime costituzionale e delle annesse garanzie statutarie, che era stato presentato come il più importante motivo di progresso politico conseguente all’unificazione, si era di fatto risolto nella sua stessa negazione, la dittatura militare».


Prima di lui, un padre della patria, Luigi Settembrini era arrivato a una conclusione ineccepibile, nel suo realismo: «L’esercito è il filo di ferro che tiene unita l’Italia dopo averla cucita».
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