MilanoLe cene, i salotti e i baciamani. Cè davvero di tutto nellalbum vischioso dei rapporti fra politica e giustizia. Antonio Di Pietro strilla per la cena fra i due giudici della Consulta e Berlusconi. Ma rimase zitto, nel 97, quando lallora direttore del Tempo Maurizio Belpietro scrisse sul suo giornale quel che il Presidente emerito della Consulta Antonio Baldassarre aveva raccontato, davanti a un tè, in un salotto romano: due giudici, Renato Granata e Gustavo Zagrebelsky si erano orientati a favore del referendum sulla smilitarizzazione della Guardia di finanza. Poi su pressione del presidente Scalfaro avevano cambiato idea. Alla fine - ricorda Belpietro - «agli italiani fu impedito di votare sul quel quesito. Ma soprattutto alle mie rivelazioni non seguì nulla. Lunico risultato fu il mio licenziamento dal Tempo». Nessuna reazione, neanche dallex pm Di Pietro, lo stesso Di Pietro che invece è scattato come un pm quando era inquisito, e nessuno ancora lo sapeva, il provveditore Mario Mautone.
È così da sempre: politici e giudici si mischiano e si ritrovano nelle case bene dei Parioli o del quartiere Prati, qualche volta si scambiano perfino i ruoli, fanno avanti e indietro fra Tribunali e Camere. I dati raccolti da uno studioso di lungo corso come Giuseppe Di Federico documentano lingorgo: cinquanta giudici candidati nel 96, ventisette eletti. Mai meno di dodici magistrati in Parlamento dal 1979. E un susseguirsi di paradossi: Adriano Sansa è stato giudice a Genova, sindaco ulivista della stessa città, poi, incredibilmente, ancora giudice a Genova. Tutto normale. E la sacralità della funzione giudiziaria? E lidea del giudice terzo, distaccato, che non deve solo essere ma anche apparire imparziale? Niente da dire.
Giuseppe Ayala è uno dei più famosi pendolari su questa strana rotta. Storico giudice antimafia nella stagione dei Falcone e Borsellino, politico di rango e di studi tv nellItalia del centrosinistra e oggi? Molti, vedendolo ancora civettare davanti alle telecamere, penseranno che sia rimasto di là. Invece si è rimesso la toga, ma almeno è stato onesto: «Ho dovuto farlo. Mi mancava un anno e mezzo di contributi». Chapeau. Pierluigi Onorato ha fatto di più: è stato parlamentare comunista, è rientrato in magistratura e ha scritto la sentenza della Cassazione contro un suo avversario politico, un certo Marcello DellUtri. Solo che nelle motivazioni del verdetto non ha tenuto conto di uno degli argomenti sviluppati dagli avvocati difensori e in conclusione DellUtri lha querelato. Lui ha controquerelato, la contesa è proseguita, come in un duello alla Conrad, alla Corte europea di Strasburgo. Intanto, Onorato ci spiega che «bisogna distinguere», caso per caso. «Io lho fatto senza cedere alla tentazione dellideologia». Chiaro? Così abbiamo brevettato il giudice-militante con autocertificazione di equidistanza.
Ma di cosa stiamo parlando? Gli esempi sono come le ciliegie. Vito DAmbrosio era magistrato in Cassazione. Dal 95 al 2005, per dieci anni, è stato il Governatore rosso delle Marche. E poi? Oplà, lhanno reincollato sulla stessa poltrona di giudice. Sempre in ossequio alla separazione dei poteri, allausterità della funzione e a tutto larmamentario della Repubblica. Anche lui, naturalmente come Onorato, ha la sua giustificazione: «Io distinguerei fra attività parlamentare e politica negli enti locali». E infatti Ambrogio Moccia ha distinto, addirittura dividendo la sua giornata come uno schermo in due: la mattina giudice a Milano al processo delicatissimo sulle tangenti delle Ferrovie con imputati eccellenti come Necci e Pacini Battaglia; alla sera consigliere comunale dellopposizione a Monza. Pure lui, come i suoi esimi colleghi, una spiegazione ce lha perché tutto in Italia si spiega a parte la cena di Berlusconi. Anche lessere giudice terzo part time, fino a mezzogiorno: «Io non sono il candidato sindaco dellUlivo, io sono il portacolori di uno schieramento che comprende anche lUlivo ma che guarda ancora più lontano».
Sì, i giudici guardano lontano. Dieci anni fa, il pm Michele Emiliano pestava i piedi al Pds pugliese per la missione Arcobaleno in Kosovo. Emiliano inquisì un paio di parlamentari, mise sotto inchiesta il sottosegretario alla Protezione civile Franco Barberi, il Bertolaso di DAlema, sfiorò lo stesso Baffino. Oggi, sempre a Bari, è sindaco e poiché in Italia vale tutto ma proprio tutto, è segretario regionale del Pd.
Chissà, qualcuno ci verrà a spiegare che alla Consulta, il santa sanctorum dove si entra solo in punta di piedi, le cose vanno diversamente. Ma è davvero così? Basta il siparietto raccontato da Belpietro per capire che nel salottificio romano si accomodano felicemente anche loro. Del resto nessuno si è mai scandalizzato per aver visto a pranzo, in un ristorante di cucina pugliese di via Della Colonna Antonina, a due passi dalla Camera, il giudice costituzionale Guido Neppi Modona e lallora guru del cosiddetto partito dei giudici del Pci-Pds Luciano Violante, abbonato alle orecchiette alle cime di rapa.
Va bene, lasciamo perdere due monumenti come Neppi Modona e Zagrebelsky, per inciso storico collaboratore di Repubblica così come il suo amico Giancarlo Caselli lo è dellUnità, e spostiamoci verso il professor Giovanni Maria Flick. Fino al 18 febbraio scorso era il presidente della Consulta, prima ancora, fra il 96 e il 98, Guardasigilli del governo Prodi. Di parte, ma col mantello del tecnico a proteggerlo. Pazienza. Però basta agitare lindice sul sito più pettegolo del mondo, Dagospia, per trovare che anche lo scienziato Flick ha partecipato al grande slalom romano fra una festa e una tartina.
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