L’anno in cui si incontrarono, il 1928, Victoria Ocampo era una bella e ricca argentina non ancora quarantenne, sposata, ma di fatto separata e con un unico grande amore alle spalle, e Pierre Drieu La Rochelle un brillante trentacinquenne senza lavoro fisso, al secondo e già fallito matrimonio, con molte avventure sentimentali dietro di lui. Che cosa spingesse l’una nelle braccia dell’altro e viceversa non è facile dire: negli scrittori Victoria cercava gli uomini, anche se pur sempre come intesa di anime, più che di corpi; quanto a Drieu, la sua attrazione era figlia della prevenzione, il fascino esercitato da una donna intelligente, ovvero ai suoi occhi un controsenso, se non un elemento contro natura.
Come che sia, furono amanti, restarono amici, si scrissero, viaggiarono insieme, polemizzarono anche duramente, ma senza che questo incidesse sulla stima e l’affetto reciproci. La Ocampo fu l’unica donna alla quale La Rochelle lasciò scritte, in busta chiusa, le ragioni del suo suicidio, e nel lungo tempo che lei gli sopravvisse quel ricordo sentimentale e intellettuale non venne mai meno, il restare comunque fedele a chi era stato sconfitto dalla politica e dalla storia. Adesso la casa editrice Archinto pubblica, a cura di Julien Hervier, Amarti non è stato un errore (pagg. 218, euro 17, traduzione di Enrico Badellino), la corrispondenza fra loro intercorsa dal ’29 al ’44, e da essa viene una luce particolare a illuminare le due figure e un’epoca, quella fra le due guerre, così drammatica.
Ma chi era veramente Victoria Ocampo, al di là dell’eco di un nome che oggi, escluso qualche specialista, evoca pallide frequentazioni letterarie fra le due sponde dell’Oceano Atlantico, il nome di una rivista, Sur, e di un collaboratore d’eccezione, Borges?
La più grande di sei figli, Victoria apparteneva a una delle famiglie più facoltose e antiche dell’aristocrazia bairense. Fra i suoi antenati c’erano un paggio di Isabella di Castiglia, un governatore del Perù, un candidato alla presidenza della repubblica argentina. Fra i suoi parenti lo scrittore José Fernandez, l’autore del Martin Fierro, il poema epico di una nazione. La sua casa modernista sul Mar del Plata era stata costruita sul modello di Gropius, quella di Buenos Aires secondo i dettami dell’architetto Alberto Presbich, allievo di Le Corbusier. Ricchezze immense, dunque, al servizio di un’educazione squisitamente europea, l’idea di un’Argentina appendice e insieme avamposto del Vecchio Continente che Drieu, ossessionato dalla decadenza di quest’ultimo, non tarderà a rimproverargli: «Mi avevi detto che l’Argentina era piena di vita, di forza, eccetera. No, io non vi ho trovato che la tua vita di donna e un certo fermento in profondità che c’è anche a Parigi nei suo rigagnoli. C’è forza nel popolo argentino, come in ogni popolo, ma questa forza è imprigionata dallo schema formato da La Nación, dalla “Società”, dai circoli intellettuali e da Sur e che non serve una causa organica, ma quella della letteratura in generale».
Per una giovane bene di quell’Argentina primo ’900, dove la donna sposata ha ancora lo status giuridico di una minorenne e deve sottostare all’autorità del marito, la strada è apparentemente obbligata: un matrimonio all’altezza del patrimonio, una vita di agi, lussi, viaggi, la cura e l’educazione dei figli. Ma se la Ocampo si sposa a ventidue anni, nel 1912, con Luis Bernardo de Estrada che conosce da quando è adolescente, già un anno dopo l’unione non funziona più, lui troppo geloso e brutale, «il mostro triste» che considera le donne puledre da domare e da cavalcare, lei che ha seguito alla Sorbona corsi su Dante e Nietzsche, che è andata al Collège de France ad ascoltare le lezioni di Bergson... Vivranno sotto lo stesso tetto, ma non nello stesso letto per circa un decennio, poi, nel ’26, la legislazione argentina consente alle donne sposate l’esercizio di una professione e il poter disporre del proprio denaro, e Victoria, che da quattro anni è comunque andata a vivere da sola, ha intanto cominciato a farsi un nome letterario e non si è negata lo scandalo, più o meno soffocato, di una relazione con Julián Martínez, un diplomatico ricco e playboy che vanta fra le sue conquiste Coco Chanel. È ancora legata a lui, anche se l’amore si è ormai spento ed è rimasta della tenerezza, quando nell’estate del ’28 incontra Drieu a Parigi.
Va detto che Victoria ha una passione per gli uomini d’ingegno e di fama, il che può prestarsi all’equivoco di una sorta di ricca collezionista di celebrità. È un errore che farà il filosofo tedesco Hermann von Keyserling, è un errore che farà il filosofo spagnolo Orytega y Gasset: entrambi ne scambiano l’entusiasmo, la passionalità, l’amore verso ciò che dicono, scrivono e pensano, per qualcosa di fisico che lei invece non prova. È un’epoca ancora in gran parte misogina, in cui l’uomo è abituato a essere ammirato e si aspetta che la donna si conceda senza troppe storie. Di qui incomprensioni, scambi di accuse, rotture di rapporti.
Con Drieu, però, scatta qualcosa di diverso. Certo, è misogino anche lui, e lo è al massimo grado, ma in modo diverso dalla brutalità e in fondo dalla volgarità di quei due illustri pensatori: lo è con tenerezza e con rispetto, quasi scusandosi. È un animo delicato che capisce subito come dietro la maschera della donna indipendente e a proprio agio in ogni situazione ci sia l’insicurezza e l’infelicità di chi è costretta a recitare un ruolo, vorrebbe lasciarsi andare, ma l’educazione, la società glielo impediscono. Victoria ha tutto ciò che a Drieu piace, ma anche tutto ciò che Drieu detesta. Una casa nell’VIII arrondissement, abiti di Chanel, quadri di Picasso, Léger, Mirò alle pareti, soggiorni al Savoy di Londra o al Normandy di Deauville, e insomma quell’idea del lusso, delle cose belle, della pigrizia e dell’ozio che egli coltiva in modo quasi maniacale proprio perché non è alla portata dei suoi mezzi. L’idea di essere mantenuto da «mecenati femminili» da un lato ne solletica l’orgoglio maschile, e dall’altro gli ripugna perché proietta su di sé l’ombra di un padre vanesio, fallito e seduttore, incapace di amare e fonte di sofferenza per sua madre.
Anche come tipo femminile Victoria è per Drieu il concentrato di sentimenti contrastanti. Fisicamente è alta, ben fatta, matura, e questo si accorda con chi non si è mai innamorato di fanciulle in fiore e non si è mai visto nel ruolo del pigmalione-corruttore di anime giovani e caste. E però stride con la sua preferenza verso le donne anti-intellettuali, dirette, le uniche che egli possa sopportare perché non lo obbligano a pensare, perché non invadono la sua intimità. Victoria è «tutto quello che nell’altro sesso lui vuole ignorare», quell’elemento di cultura che può scuotere il suo senso di superiorità, che può costringerlo a discutere, a rivedere una posizione, a interrogarsi sulla bontà di una scelta. È insomma il fascino che nasce da un pericolo, laddove la passione per le donne semplici, se non per le prostitute che nemmeno fanno domande, è sotto il segno della sicurezza. Il primo è alla lunga stressante, la seconda alla lunga è noiosa.
E Victoria? Che cosa trova in Drieu Victoria? È un intellettuale, ma non di quelli libreschi. Ha una modernità che ne fa il termometro culturale di quella Francia fra le due guerre, in grado di cogliere la novità delle avanguardie, ma anche spesso la loro sterilità. È aitante, e il suo narcisismo masochista non riesce a nascondere il coraggio fisico e una tensione morale incapace di compromessi. Rispetto alla media dei suoi confratelli, ha più buon gusto, pulizia, charme, e ciò colpisce chi, come lei, sotto questo aspetto ha poco da imparare e molto da insegnare... Infine, nel gioco psicologico Drieu è uno che non si nega e questo rende lo scambio più interessante per una mente femminile... Come molte donne, Victoria vorrebbe salvarlo dal suo lato nero, pessimista, malinconico, come molte donne pensa e spera di dargli quella fiducia nei propri mezzi in grado di condurlo a grandi cose.
La distanza, le differenze di opinioni politiche, la stanchezza che si insinua in ogni legame sentimentale, allenteranno nel tempo i rapporti, senza mai però reciderli. Negli anni ’30, un ciclo di conferenze in Argentina organizzato dalla Ocampo sarà per Drieu l’occasione per mettere a fuoco ideologie e scelte di campo: «È stato lì che ho capito che la vita del mondo occidentale stava uscendo dal suo torpore e che si apprestava ad essere lacerata dal dilemma fascismo-comunismo. Da quel momento, ho camminato rapidamente verso la caduta in un destino politico». La summa di tutto questo sarà, nel 1943, L’uomo a cavallo, storia di un dittatore boliviano che sogna l’unità del continente latino-americano e la riconciliazione delle classi sociali. Camilla, l’eroina del romanzo, è in realtà Victoria Ocampo, e naturalmente il loro è un amore destinato al fallimento. «Sarebbe ora che tu capissi che le donne sono anche esseri umani» gli aveva rimproverato un giorno... Perché Ocampo sapeva che «nella sua maniera di amare la Francia riconosco il suo modo di amare le donne che gli ho spesso rimproverato e che era poi così irritante, ma non meschino.
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