Quegli aiuti Usa dirottati alla frontiera con l’India

A Washington sono tutti d’accordo, Pervez Musharraf ha esagerato e il marcio deve venir a galla. Il marcio più marcio è nascosto sotto la montagna di aiuti militari, per un ammontare che spazia dai sette ai dieci miliardi di dollari, concessi al presidente pakistano in nome della lotta ad Al Qaida. La sproporzione tra i fondi elargiti e i risultati ottenuti è evidente. I Corpi di frontiera, le milizie arruolate nelle aree tribali della North West Front Province e mandate combattere i talebani e i fedelissimi di Osama Bin Laden sono l’icona stessa della discrepanza. Armati di residuati bellici, equipaggiati con sandali e vecchie divise, sprovvisti di fuoristrada ed elicotteri, gli 80mila miliziani dei “corpi di frontiera“ appaiono totalmente estranei a quella montagna di aiuti.
Dunque, dove sono finite le forniture americane, come sono state impiegate? Semplice, sono finite negli arsenali convenzionali allestiti per far fronte a un’eventuale guerra con l’India, con il nemico di sempre considerato da Washington un prezioso alleato nella guerra al terrorismo. Invece di addestrare i miliziani alle tattiche di controguerriglia, dotarli di elicotteri, fuoristrada, mitragliatori efficienti, visori notturni e sistemi di comunicazione al passo con i tempi, Musharraf e i suoi generali hanno investito in sofisticati caccia F16, missili anti nave, aerei antisommergibile e obici di grossissimo calibro inutilizzabili tra le montagne al confine con l’Afghanistan.
«Sostenere che quanto fornito dagli Stati Uniti possa essere utile nella lotta al terrorismo è quanto mai difficile: quella roba serve solo in caso di guerra con l’India», ammette senza mezzi termini l’analista Alan Kronstadt, del centro ricerche del Congresso statunitense. Persino 4mila radio e dodici elicotteri da combattimento, l’unica parte del costosissimo arsenale utilizzabile per fronteggiare la guerriglia al qaidista, sono finiti a equipaggiare le forze convenzionali. I risultati sono evidenti. I fantaccini in sandali e giberna dei Corpi di frontiera non solo non riescono a sgominare le roccaforti di Al Qaida disseminate nella zona tribale o a fermare l’andirivieni di migliaia di talebani lungo la frontiera talebana, ma non sono neppure in grado di garantire la propria incolumità. Lo scorso 30 agosto un’unità di 250 miliziani si è arresa senza sparare un colpo e nei due mesi successivi Islamabad si è vista costretta, dopo almeno tre decapitazioni, a negoziare la loro liberazione concedendo il rilascio di 25 militanti fondamentalisti. Il sostanziale disinteresse di Islamabad per quelle unità ha finito per trasformarle in un ricettacolo di collaborazionisti poco disposti a combattere e ideologicamente conniventi con il nemico.
Venendo reclutati nelle vallate considerate il brodo di cultura del fanatismo al qaidista, i miliziani dei Corpi di frontiera sono ovviamente sensibili all’indottrinamento religioso, alle influenze tribali e all’atteggiamento antigovernativo delle popolazioni di quelle montagne, ma sono anche, a detta della Cia, il miglior strumento per fronteggiare il nemico. Conoscendo la lingua, il territorio e le popolazioni locali, hanno potenzialmente accesso ad informazioni e luoghi irraggiungibili dall’esercito.

La diffidenza di Musharraf e dei suoi generali più inclini a irrobustire le forze convenzionali hanno invece moltiplicato il malessere e il tasso d’inaffidabilità dei miliziani privando gli Stati Uniti e lo stesso Pakistan della migliore arma nella lotta ad Al Qaida. Un disastroso insuccesso costato alla fine quasi dieci miliardi di dollari.

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