In unintervista pubblicata su Il Giornale di ieri Carlo Verdone, presente allUCI Bicocca per la proiezione del suo ultimo film, ci ha ricordato che «Milano è sempre stata una città cinematografica» e che anche oggi sarebbe una location ideale, soprattutto per quei registi che «sentono il bisogno di scenari nuovi, meno scontati e più internazionali». Un libro fresco di stampa, «Milano films 1896-2009» (Fratelli Frilli Editori), fornisce una conferma a queste dichiarazioni motivandole in una prospettiva storica. Leggendo il dettagliatissimo volume di Marco Palazzini e Mauro Raimondi apprendiamo infatti che, prima «dellavvento del Fascismo e della decisione di attribuire a Roma la veste di indiscussa capitale del cinema italiano», Milano era la città che poteva contare sul maggior numero di case di produzione e su unefficace sistema distributivo. Persino dopo che lindustria cinematografica è stata trasferita di peso nellurbe, nel capoluogo lombardo si sono girati dei piccoli gioielli come «Stramilano», il cortometraggio (datato 1929) di Corrado DErrico in cui, per la prima volta, viene alla luce lo specifico di una città moderna, tecnologicamente e culturalmente avanzata, nella quale le signore si dedicano alle sfilate di moda e la nuova borghesia riempie i locali in cui si suona il jazz. La parola dordine del cinema milanese è insomma, fin dalle origini, «modernità»: un termine a doppio taglio, una categoria di pensiero che esalta il progresso industriale e sociale anche a scapito della relazioni interpersonali. Non è un caso quindi che, nel secondo dopoguerra, la prima «definizione di una Milano cinematografica» avvenga grazie a un regista dedito a indagare le «malattie dei sentimenti».
Dobbiamo a Michelangelo Antonioni e al suo lungometraggio desordio, «Cronaca di un amore» (1950), «una prima caratterizzazione filmica» in cui il capoluogo lombardo è soprattutto «una città invernale», un «simbolo di alterità» e soprattutto «freddezza»: sia fisica, per cui Totò e Peppino penseranno bene di recarvisi impellicciati (nel memorabile «Totò, Peppino e la malafemmina» del 1956), che emotiva, come dimostra laltra pellicola ambrosiana di Antonioni, lalgida, impeccabile e allo stesso tempo straziante «La notte» (1960). Ovviamente anche in questo panorama di desolazione relazionale cè spazio per lottimismo, come testimoniato da «Miracolo a Milano» (1951) di De Sica, o per il buonumore (non tantissimo a dire il vero, perlomeno non prima degli anni Ottanta e della comicità sardonica di Pozzetto e Celentano). La tensione prioritaria rimane però quella di svelare laltra faccia della modernità: innanzitutto quella opaca dellanonimato industriale, poi quella cruenta dei conflitti sociali e quella fricchettona e intimamente stanca del riflusso postmoderno. Il cinema compie un vero e proprio «pedinamento» (per usare un termine caro al più grande degli sceneggiatori, Cesare Zavattini) della metropoli ambrosiana nel suo percorso verso «le magnifiche sorti e progressive» di leopardiana memoria: scorrendo il libro di Palazzini e Raimondi ci accorgiamo, infatti, di come i registi non si siano persi neppure una tappa del lungo tragitto che va dal boom economico alla «Milano di piombo», dalla «città di Epaminonda e Turatello» a quella «del disimpegno» e della «crisi didentità degli anni Novanta», per non citare che i titoli dei principali capitoli. Le analisi più inedite e più interessanti sul cinema milanese le troviamo però nelle ultime cinquanta pagine.
Nei capitoli conclusivi del volume, dopo aver stilato dei riusciti profili di Nichetti, Salvatores e Soldini, gli autori si concentrano sulle produzioni indipendenti, sulle intersezioni tra videoarte e cinema, su figure di irrequieti sperimentatori come Paolo Rosa, o di poetici esploratori del territorio urbano come Marina Spada.
Quei cult movie sotto la Madonnina
SPERIMENTAZIONE Da Antonioni a Salvatores a Nichetti. In pellicola laltro volto della modernità
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