Controstorie

Quei disastri ambientali figli del sogno bolscevico

L'ultimo di una lunga serie il 29 maggio a Norilsk E Putin obbliga le aziende a investire nell'ambiente

Quei disastri ambientali figli del sogno bolscevico

Il cielo era viola, la tundra tutt'intorno alla città industriale verdognola. La neve, dicevano, a volte fiocca nera oppure arancione, e la nebbia può diventare tutto a un tratto blu cobalto. Era stato davvero un viaggio allucinante, un paio d'anni fa, quello nella regione di Norilsk, 180mila abitanti, la città più inquinata della Russia e, secondo il Fridtjof Nansen Institute di Oslo, dell'intero emisfero settentrionale. La Manchester descritta da Dickens nel 1830 doveva essere più o meno così. Dopo qualche ora eravamo intontiti, scossi da una tosse incessante, avevamo imparato a riconoscere le emissioni dal sapore, quando era rame era dolce, il nickel invece era amaro e piccantino. L'incidente del 29 maggio - ma rivelato a Mosca solo due giorni dopo, con sfuriata in mondovisione di Vladimir Putin -, quando a Norilsk è collassata una cisterna del complesso industriale della Nornickel e 21mila tonnellate di diesel hanno ammazzato l'intero sistema acquifero dei fiumi Norilo, Ambarnaya e del lago Pyasino, è stato certamente di proporzioni incalcolabili, secondo Greenpeace comparabile solo a quello della Exxon Valdez in Alaska nel 1989. Ma è solo l'ultimo di una lunga serie; ci raccontavano che nel 2016 il fiume Daldykan è improvvisamente diventato rosso sangue, come il Nilo nella Bibbia. L'agenzia russa per l'ambiente Rostekhnadzor ha registrato negli ultimi due anni almeno 15 fuoriuscite di liquidi utilizzati nelle miniere di nickel, dovuti alla mancanza di manutenzione alle cisterne, che poggiano sul permafrost come d'altronde tutto ciò che è stato costruito nella regione: «A Norilsk, che è la più grande città costruita sul permafrost, il 60 per cento delle abitazioni sono a rischio e il 20 per cento sono già state abbandonate», dice al Giornale Dmitry Streletskiy, docente della George Washington University e uno dei maggiori esperti delle conseguenze dello scioglimento del permafrost nell'Artico russo. Racconta che questa primavera si sono registrate le più alte temperature di sempre e che lo sfaldamento avviene repentinamente. «La Russia sta investendo enormi capitali nelle infrastrutture per estrazioni delle materie prime nell'Artico, ma abbiamo stimato che a causa del permafrost potrebbe subire danni per 80 miliardi di dollari in tre anni, senza calcolare i costi per riparare disastri come quelli di Norilsk».

Si tratta di una delle aree vitali per l'economia russa. Anzi, per il mondo intero. Perché, come dice Lars Rowe del Nansen Institute, «l'inquinamento di Norilsk serve all'Occidente per inquinare meno, a combattere l'effetto serra. Così ha deciso il mercato». Per tamponare l'escalation climatica e contrastare il processo di scioglimento nell'Artico, una delle armi più richieste è infatti il nickel, elemento base (insieme al cobalto, derivato dal rame) delle batterie per le auto elettriche, annunciato come uno tra i più fiorenti business dei prossimi anni. Quindi prima d'inserire la spina, serve nickel, una montagna di nickel e cobalto, tanto cobalto. Così che la Nornickel, l'azienda monopolista russa nella produzione di nickel, palladio, platino e rame, entro quest'anno dovrebbe raggiungere le 100mila tonnellate di materiale lavorato ed esportato. «Un cortocircuito - dice Lars - per cui per combattere il riscaldamento globale s'inquina l'Artico e si accelera lo scioglimento del permafrost che poi fa sprofondare le cisterne». Così che la green economy investe sull'economia nata dai gulag di Stalin. Perché la devastazione del Grande Nord non comincia con Putin, che anzi obbliga le grandi aziende estrattive (240 milioni di tonnellate di petrolio e 43 trilioni di gas sono prodotte oltre il circolo polare) a investire nell'ambiente e nel sostegno alle popolazioni indigene, i Nenet, i mandriani di renne. Ed è significativo che il direttore dell'impianto, Vyacheslav Starostin, sia stato incriminato per direttissima.

Nei suoi quattro anni d'esilio nell'isba di Kureika, spedito dalla polizia segreta dello zar, Stalin scopre come trasformare la prigionia in opportunità, il gulag in strumento di terrore politico (solo a Kolima un milione di morti tra il 1930 e 1950) e volano economico dei Soviet. Metà del capitale del secondo piano quinquennale, 1932-1937, è investito nel Grande Nord, Norilsk è fondata in quegli anni, è figlia del bolscevismo e del mito della frontiera come spinta propulsiva del comunismo scientifico. La Natura non esiste, esiste solo l'uomo nuovo sociale che la sfrutta per la prosperità collettiva. Nell'industrializzazione selvaggia dell'Artico, l'Urss trova il nemico metafisico da sconfiggere e controllare, dove il paesaggio è più ostile è precisamente dove è più grande la conquista ideologica ed economica. Basta poesie e romanzi sul vuoto immobile della tundra e le betulle. Vladimir Zazubrin celebra la devastazione nella regione dove è appena accaduto l'incidente della cisterna: «Lascia che la bestia verde sia vestita nel cemento armato delle città, nel cemento delle fabbriche chimiche, cinta dal ferro e da mille binari. Lascia che la taiga sia bruciata.

Solo con il cemento e con il ferro si realizza la fraterna unione dei popoli, la fratellanza si forgia nel ferro e nel cemento», scriveva quello che diventerà uno dei più potenti narratori del terrore rosso in Siberia, raccontato dalla parte dei carnefici.

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