«La miseria è ancora l'unica forza vitale del Paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custodite soltanto dalla miseria. Dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitalismo, ecco che si assiste alla completa rovina di ogni patrimonio artistico e morale. Perché il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato, nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che l'umilia. La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall'imbroglio, da facili traffici, sempre o quasi, imitando qualcosa che è nato fuori di qui. Perciò quando l'Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l'anima».
Queste sorprendenti parole di Leo Longanesi del 1957 segnano la consapevolezza del passaggio dall'Italia contadina all'Italia industriale, ben prima che Pier Paolo Pasolini denunci la omologazione della società, ed esalti come un monumento la stradina di Orte da difendere dal rischio della cancellazione. Il destino di un paese è nella sua mutevole permanenza nella storia e nella memoria, rinnovandosi senza perdersi. Alcuni luoghi passano e muoiono, nell'indifferenza. Dal Piemonte alla Sicilia, una parte della Italia rurale, che conservava un senso profondo, si è svuotata. Una costellazione di piccoli comuni, dal 1971 al 2015, hanno perso più della metà dei loro residenti. Sconsolante esodo. Resistere è difficile, ma è necessario per non essere tagliati fuori dal proprio tempo interiore per le brutture di Stato, gli eccessi e gli inutili ritardi della burocrazia, in un mondo che si espande fino a strapparsi, rendendosi indistinguibile, nei comportamenti, nei gusti, nelle mode, nella superficialità della peggior mentalità di provincia. Helsinki può apparire come Londra, che può assomigliare a Palermo o a San Francisco o a Bucarest, nei suoi moderni profili urbani, coi suoi Starbucks, i McDonald's, con le grandi catene di negozi che ormai condizionano la nostra esistenza in una progressiva reductio ad lucrum. Da quei non luoghi pare che si decida, oggi, il destino di una città, come se, nella vita di ogni giorno, la bellezza millenaria, monumentale, il patrimonio artistico che costituiscono la vita profonda e le tradizioni di un popolo, esistessero per favorire uno sterile turismo di massa che appare, il più delle volte, uno stupro.
I veri borghi italiani devono elaborare una resistenza, mentre si assottiglia il tempo della meditazione, della coltivazione di sé stessi, cercando che non si spenga la durata interiore della nostra esperienza umana. I luoghi remoti sono l'angulus ridet oraziano in cui si può ancora essere felici. Sono la salvezza dell'anima, eterno ritorno, evocazione che Cesare Pavese rivela come una necessità: «Io ce l'avevo nella memoria tutto quanto, ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi e mi raccogliessi... per sentire che il mio sangue, le mie ossa, il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre me e quella terra non esisteva nulla».
È questa la ragione della mostra, come documento antropologico e poetico, «Paesi perduti», alla Galleria Civica di Trento, in un viaggio nel quale ci avrebbe dovuto accompagnare Vito Teti che a questa materia ha dedicato i suoi studi. In La restanza ha chiarito la sua posizione: «Partire e restare sono i due poli della storia dell'umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente». Teti è anche l'autore di Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati. Contro ogni apparenza, i luoghi abbandonati non muoiono mai. Si solidificano nella dimensione della memoria di coloro che vi abitavano, fino a costituire un irriducibile elemento di identità. Vivono di una loro fisicità, di una loro corposa e materiale consistenza. Si alimentano di uno spessore doppio e riflesso. Pretendono non la fissità, ma al contrario il movimento, il percorso fisico e mentale di una loro continua riconquista. L'oggetto - ma sarebbe più proprio dire «il soggetto» - sono per Teti i paesi abbandonati di Calabria, ripercorsi col passo lento e misurato della riappropriazione in ogni loro più densa e nascosta sfumatura: case, capanne e grotte, alberi, sabbie e pietre, acqua, nuvole e vento. È una poetica dell'abbandono e della riappropriazione.
Vige, a proposito dei paesi abbandonati, uno strano sentimento, superficiale e compassionevole. Questi luoghi, si pensa in genere, non hanno senso: non hanno più senso, se mai ne hanno avuto uno. E invece, c'è un senso in questi luoghi. Un senso per sentirli. Un senso per capirli. Un senso per percorrerli, che è quello doppio del partire e del tornare. Teti ha scritto ancora Quel che resta. L'Italia dei paesi, tra abbandoni e dei ritorni. E osservava, in un momento terribile: «Mentre scrivo queste righe, il campanile di Amatrice cade sotto la forza del terzo terremoto che ha colpito, in meno di sei mesi, i paesi dell'Italia centrale. L'immagine del campanile viene riproposta ossessivamente. È una sequenza che angoscia e che però chiede di essere guardata e riguardata. Le immagini delle rovine, le visioni dei vuoti, delle assenze, dei luoghi a cui è stata sottratta la vita sono immagini perturbanti di cui abbiamo bisogno». Nell'immagine del campanile di Amatrice, Teti scorge un mondo ben più vasto, che va anch'esso inesorabilmente franando. Di fronte a questo scenario, l'antropologo coglie l'abbandono come la forma culturale dello spopolamento e si chiede: cosa fare dei segni del passato, delle schegge di un universo esploso?
Se la nostalgia diventa una strategia per inventare il paese, allora quel che resta è ancora moltissimo. Con Teti avevamo pensato a questa mostra, parlando di Papaglionti, paese fantasma, nelle immediate vicinanze di Zungri, in provincia di Vibo Valentia. Il borgo fu abbandonato nel 1952. L'atmosfera è malinconica, propizia agli appassionati di abbandonologia. È sorprendente come la natura si sia riappropriata dei luoghi. Perduto misteriosamente Teti nella giungla di Papaglionti, siamo andati avanti, con tutti gli studiosi che avevo coinvolto, affidandone il coordinamento a Gabriele Lorenzoni, che è stato meticoloso ed efficace.
Carlo Petrini tenta una proposta di resistenza: «Fino a qualche decennio fa, chi arrivava da lontano poteva immergersi in un'esperienza fatta di profumi del forno del paese, del suono delle campane, di prodotti di alto artigianato e del vociare delle osterie, le quali non solo andavano a rimarcare le tipicità attraverso la cucina, ma rappresentavano veri e propri luoghi di incontro tra indigeni e non. Un turismo responsabile deve tornare a porre l'accento su questo tipo di ospitalità prima che la memoria si affievolisca, che i borghi si deteriorino e che i tratti identitari vadano persi per sempre».
Franco Arminio non ci crede, e sigilla il suo rapporto con il mondo perduto in una epigrafe: «Il mondo in un certo senso lo davo già per perso. Non pensavo di perdere anche i paesi». E scrive il suo piccolo manifesto di paesologia. Andrea Bartoli, notaio di Favara, racconta la sua opera di riabilitazione di un quartiere di Favara e del centro storico di Mazzarino, interrotto dall'intervento ostativo della Soprintendenza: «13 settembre 2022. Tra pochi giorni, ci sarà la visita ispettiva della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Caltanissetta, in seguito alla comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio e l'obbligo di chiusura al pubblico di Palazzo Tortorici.
Un Palazzo chiuso da 25 anni. Per il quale qualche anno indietro il Comune e la stessa Soprintendenza hanno ricevuto un milione di euro di finanziamento, lasciandolo incompleto, ferito, inutile».Aiutiamo chi ripara e fa rinascere i paesi perduti.
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