Letteratura

Quei souvenir mentali di Manganelli

Da L'Aquila a Cocullo fino a Teramo, ecco le immagini commentate. E mai spedite

Quei souvenir mentali di Manganelli

Maggio 1981. Barcellona. Padre e figlia acquistano 18 cartoline con immagini della Sagrada Familia. La figlia chiede al padre: «Papà, le scriviamo, così poi le spediamo?». E il padre: «No, perché?». La figlia, adulta e con prole, ancora non conosce quella piccola, innocua, mania del padre: ovunque vada, fa razzia di cartoline, ma non le scrive, e quindi non le invia, mai. Tranne due eccezioni. Due cartoline datate 1975 e spedite dall'India «durante il viaggio più fantastico, ma anche più sconvolgente, che avesse mai fatto», ricorda la figlia. Spedite a chi? A sé stesso. Testo: «Tieni duro Giorgio, sto arrivando!».

No, Giorgio Manganelli non era un collezionista di cartoline. Era un collezionista di sensazioni, citazioni, reminiscenze, invenzioni che le cartoline servivano soltanto a materializzare, per poi finire in un cassetto. Uscendone post mortem, quando la figlia Lietta prese a riordinare tutto il materiale lasciato dal padre. Viaggiatore seriale in ogni parte del mondo (gli mancava soltanto l'Oceania) per lavoro dilettoso e per diletto lavorativo (leggi, articoli), Manganelli di cartoline vergini ne possedeva migliaia. Era il suo harem di testimonianze mute, di testi senza testo.

Ma ora una parte di quel tesoretto prende parola, per merito ovviamente di Lietta, e di Pino Coscetta, il giornalista e scrittore che nel 1987, tra marzo e maggio, accompagnò Giorgio nel più lungo viaggio fra i meno esotici e più domestici, quello in Abruzzo, cui Coscetta ha già dedicato nel 2012 un libro, Viaggio in Abruzzo con Giorgio Manganelli, edito da Solfanelli (e qui occorre ricordare anche La favola pitagorica - Adelphi, 2005 - che raccoglie, a cura di Andrea Cortellessa, i testi manganelliani dedicati ai luoghi italiani). Insomma, Lietta ci ha messo le cartoline e Coscetta le ha accompagnate ai corrispondenti passi del diario di Giorgio che uscì a puntate sul Messaggero.

Il risultato è Le cartoline abruzzesi di Giorgio Manganelli (Solfanelli, pagg. 85, euro 10) dove, nel bellissimo bianco e nero d'antan (Manganelli rifuggiva quelle a colori), le cartoline stanno, ieratiche e vagamente metafisiche, a corredo delle parole. Ecco L'Aquila con il suo castello «metallizzato» che ha l'aspetto di una «macchina impietosa»; la «distratta terribilità della Maiella»; la «vocazione clandestina» di Chieti; Teramo, con «un che di appartato, di schivo, di più accanitamente remoto»; Atri, il cui nome «mi ha sempre irretito, come un efficace incantamento. Sarà dagli atri muscosi, sarà quel leopardiano atri a dir buio, notturno, o piuttosto color di sangue raggrumato». Ecco l'«oratoria grafica» delle ceramiche di Castelli; Sulmona, severa e con un tono da «cerimonia»; l'«altera gagliardia» di Scanno; gli «onesti rettili» che si prestano alla Festa dei Serpari a Cocullo; la «coltamente teatrale» Lanciano; la piana del Fucino che sembra «quasi un gigantesco meteorite piatto»; ecco un eremo, «capolavoro costruito con grandi blocchi di silenzio e scialbato di solitudine». Nel complesso, la regione è un «continente sassoso e ostinatamente arcaico», «un grande produttore di silenzio», dove si avverte «il senso della coerenza temporale, la durezza, come pietra, del tempo antico, il luogo che non muta più».

E la natura? «A me la natura fa orrore», diceva Manganelli a Lietta. La quale ricorda che nella galleria cartolinesca del padre la natura è quasi assente: «Solo per la natura del Grande Nord riuscì a fare un'eccezione, e allora troviamo decine di immagini di fiordi, laghi rocce, geyser, montagne, certo una natura che non ha nulla di gentile e di romantico; una natura rabbiosa, spesso feroce». Non a caso qui, per l'Abruzzo, l'unico riferimento alla natura sono animali feroci, anche se parzialmente domesticati, i lupi, che trovano la carne «frugando negli scarichi dei mattatoi locali; e quando l'inverno è duro e indifferente, occorre gettare carcasse animali nelle zone lupesche, ché altrimenti i lupi morirebbero di fame». «Sublimi accattoni, mantenuti araldici, belve senza più regno adatto alla propria feroce regalità», per l'Abruzzo i lupi del Parco Nazionale sono ospiti ombrosi, orgogliosi e solitari.

Come Giorgio Manganelli.

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