Quel che resta di Freud caduti totem e tabù

Un secolo e mezzo fa nasceva il padre della psicanalisi. La sua intuizione originaria dell’inconscio ha permeato tutti i campi del sapere e dell’arte. Bilancio di una disciplina

Centocinquant’anni fa, il 6 maggio 1856, nacque Sigmund Freud. A Freiberg (oggi Pribor, Repubblica Ceca), ma a quattro anni era già a Vienna, teatro di tutta la sua vita, e del suo pensiero. È probabilmente l’unico medico (a parte Samuel Hannemann, fondatore dell’omeopatia, nato cent’anni prima di lui, nel 1755), di cui un secolo e mezzo dopo si discuta ancora con tanta passione, e le cui intuizioni pesino ancora così tanto non solo nella pratica terapeutica, ma in tutto il dibattito culturale. Forse perché, ed è il primo elemento da considerare in quest’anniversario, il suo metodo, nato all’interno della medicina, finì fatalmente per scavalcarla, e diventò un punto di confronto obbligato anche per le altre scienze umane: la psicologia, certamente, ma anche la pedagogia, l’antropologia, per non citare che quelle più direttamente coinvolte.
L’ampiezza dello spazio tuttora occupato da Freud nell’insieme delle «Human Sciences» spiega anche l’intensità delle guerre che tuttora si combattono contro di lui, o in suo nome. L’anno scorso in Francia furoreggiò un Livre noir de la psycanalyse, che si proponeva di distruggere ogni residuo di freudismo. Il libro, in parte opera di transfughi scontenti, conteneva soprattutto pettegolezzi, e non causò danni. Da parte freudiana rispose Elisabeth Roudinesco, con un altro piccolo testo, Pourquoi tant de haine? (Perché tanto odio?), nel quale autorispondeva alla domanda del titolo dimostrando che tutto questo livore era dovuto al tentativo/bisogno dei terapeuti formati nelle psicoterapie di derivazione anglosassone (cognitivisti e comportamentisti), di conquistare, col supporto della stampa di sinistra, l’importante «mercato» occupato dalla psicoanalisi.
In Italia la diffidenza alla psicoanalisi è un dato ambientale, che non cessò mai. All’inizio del secolo, per via di Cesare Lombroso, organicista di ferro. La Voce le dedicò, è vero, nel 1910, un numero speciale, intitolato «La questione sessuale», che andò subito esaurito. Croce, però (che confondeva l’inconscio freudiano con l’inconoscibile), non la poteva soffrire, Gentile non l’amava, e la modesta Rivista italiana di psicoanalisi fu completamente proibita nel 1934. Eppure i rapporti tra Freud e il Duce erano buoni. Il padre di una paziente italiana, amico di Mussolini, gli chiese un libro da offrire al Duce, e Freud, nel 1933, scelse il piccolo carteggio Perché la guerra?, due lettere scambiate con Einstein, con la dedica: «Da parte di un vecchio che saluta nel Legislatore l’Eroe della cultura». Il Duce probabilmente gradì, e chiese, nel 1938, nel pieno delle leggi razziali, all’ambasciatore italiano a Vienna di fare un passo presso Hitler per evitare l’esilio di Freud (senza riuscirci).
In Italia, tuttavia, Cesare Musatti, ebreo, fu allontanato dopo il 1938 dall’Università, dove insegnava psicologia sperimentale. Pessimi furono poi sempre i rapporti col movimento marxista. Antonio Gramsci notava, già nel 1930, nella letteratura psicoanalitica «un fattore depravante e regressivo... l’abuso e l’irregolarità delle funzioni sessuali» che dopo l’alcolismo sono «il nemico più pericoloso delle energie nervose». Dopo la guerra poi, l’influente filosofo marxista Antonio Banfi bolla la psicoanalisi di «fiore putrido del positivismo romantico», e «metafisica della personalità disciolta». Dopo la metà degli anni ’60, venne il disgelo. Tuttavia la legge italiana sulla psicoterapia, firmata dal cattolico-comunista Adriano Ossicini, non nomina mai la psicoanalisi, della quale non si parla neppure nella maggior parte delle facoltà di psicologia.
Malgrado (o forse grazie a) queste ostilità la psicoanalisi tiene. Anche perché nel frattempo, al di là delle divisioni burocratiche delle società analitiche, come campo del sapere si è sostanzialmente riunificata, ricomprendendo anche gli allievi delle varie dissidenze a Freud: da Adler a Reich a Jung, la cui influenza è continuamente cresciuta.
Che cosa sorregge ancora questo pensiero complesso, eterodosso per vocazione, che si traduce poi in una pratica terapeutica difficile e costosa? La psicoanalisi poggia sempre sulla sua intuizione originaria, quella che idealisti e marxisti non possono mandare giù: l’inconscio. Certo, non solo quello personale, cui si riferiva Freud, ma anche quello collettivo, studiato da Jung. L’inconscio narra ciò che la coscienza ignora e, se non lo ascolti, il nevrotico non guarisce. Certo, per ascoltare l’inconscio, per interpretare un sogno ad esempio, devi essere provvisto di alcune conoscenze, tra le quali molte delle intuizioni freudiane. La teoria della sessualità per esempio, con le sue fasi, orale, anale e genitale, per quanto bizzarra possa sembrare, è puntualmente confermata da un secolo di pratica clinica. Anche «la nostra mitologia», come lo stesso Freud ironicamente la definiva, e cioè la teoria delle pulsioni come spinte originarie dei comportamenti, appare sostanzialmente insostituibile, a meno di cadere in una mappatura superficiale della situazione, che nulla approfondisce e nulla trasforma.
Più difficile, mi sembra, ricondurre ancora ogni disagio al «romanzo familiare», allo scenario genitori-figli. La famiglia di oggi (come quella precedente all’800), non è più il teatrino asfissiante studiato da Freud nella Vienna del primo Novecento; inoltre i suoi rapporti con la società sono diversi (come del resto lo erano nei secoli precedenti). Ampiamente fallito, mi sembra, anche il tentativo di ridurre la religione a psicopatologia; così come l’incursione antropologica di Totem e tabù (1913), con il mito inventato dell’orda dei figli che uccide il padre, per tenersene le mogli.


Sarebbe ben strano, del resto, che gli undici massicci volumi dell’Opera Omnia di Freud editi da Boringhieri stessero ancora in piedi tutti, dal primo all’ultimo saggio. Quel che rimane è comunque moltissimo. Forse abbastanza per altri centocinquant’anni.

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