Politica

Quel «passo indietro» frutto di un compromesso

Le pressioni su Trichet (Bce), i contatti tra via Nazionale ed esecutivo, il via libera della Lega dopo le garanzie sulla «banca del nord»

da Roma

Antonio Fazio si sarebbe dovuto dimettere dopo il via libera del Consiglio dei ministri alla riforma della Banca d’Italia. Perché nonostante le pressioni dell’opposizione e pure di parte della Casa delle libertà, il governo alla fine ha scelto la strada della mediazione: prima escludendo gli effetti «transitori» della riforma (che entrerà in vigore con il prossimo governatore) e poi depennando le due righe sul limite dei 70 anni di età (che avrebbe di fatto «pensionato» il sessantanovenne Fazio). Insomma, «una riforma non punitiva» (parole del ministro del Welfare Roberto Maroni) che di fatto ha preservato Fazio e pure i suoi sostenitori (tra cui la Lega). Una riforma a cui sarebbe dovuto seguire un passo indietro del governatore, almeno stando ai contatti intercorsi tra Palazzo Chigi e alcuni degli uomini vicini a Fazio.
Così non è stato e, primo in ordine di tempo, il ministro dell’Economia Domenico Siniscalco ha deciso già domenica di mandare un segnale forte al governatore: «Silvio Berlusconi ha parlato di atto di coscienza. In tutta coscienza, se io fossi Fazio me ne sarei già andato da tempo. Forse la questione deve essere posta in modo formale, attraverso passi istituzionali». Parole dure e, soprattutto, concordate con il premier. Palazzo Chigi, infatti, si sarebbe speso direttamente con il presidente della Bce Jean Claude Trichet chiedendogli di non affondare Fazio. Due le argomentazioni del governo: il prestigio ferito dell’Italia e l’assicurazione di risolvere il pasticciaccio di via Nazionale al Consiglio dei ministri di venerdì scorso e, quindi, prima della riunione dell’Ecofin che si terrà a Manchester venerdì e sabato. Così, viste le resistenze di Fazio nonostante la «benevola» riforma approvata dal governo, pure Palazzo Chigi ha deciso di scaricare il governatore.
E dopo l’affondo di Siniscalco domenica a Cernobbio, ieri è arrivato il certificato di autenticità di Berlusconi: «La posizione di Siniscalco è fondata, presto il ministro dell’Economia annuncerà passi formali». Una posizione concordata pure con la Lega, il partito che più di tutti in queste ultime settimane ha difeso il governatore di Bankitalia. Non tanto la persona, hanno sempre ribadito Roberto Calderoli e Maroni, quanto il progetto della banca del Nord (che si realizzerebbe con la fusione tra la Bpi di Gianpiero Fiorani e l’Antonveneta). Così, quando nel primissimo pomeriggio - e prima che sull’argomento intervenga il premier - Umberto Bossi fa sapere che «certo, bisogna tener conto anche di quello che pensa la gente, e la gente sarebbe favorevole alle dimissioni», il cerchio intorno al governatore comincia a chiudersi. «Fazio è un uomo molto capace - aggiunge il leader del Carroccio - ma in questo momento la Lega non ha intenzione di piantare casini». Eloquente. Come le conclusioni del Senatùr: «Parlano tutti troppo, chi deve parlare è Berlusconi: se Berlusconi non parla, Fazio resta al suo posto». In cambio Bossi avrebbe ottenuto assicurazioni su quello che per lui davvero conta nella partita Bankitalia: la garanzia per la Lega che la Banca Popolare Italiana (cioè la ex Popolare di Lodi) resti la «grande banca del Nord», vicina agli interessi e alle esigenze del tessuto produttivo del Settentrione.
Qualche ora dopo, verso sera, sarà Berlusconi a chiudere di fatto la partita.

Ma Fazio non cede e conferma la sua partecipazione all’Ecofin.

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