La pistola cè e fuma. La casa di Montecarlo è del cognato di Fini. La guerra che si sta combattendo nei palazzi del potere non ha quasi più nulla di politico. È scontro umano, fatto più di viscere che di ragione. Il motivo per cui si combatte ormai è solo uno: far fuori Berlusconi. Tutto il resto sono palle, scuse. La crisi, il futuro dellItalia, i salari, le tasse, la Fiat, letica, la bioetica, la Chiesa, destra e sinistra, il bunga bunga non contano nulla. Berlusconi è arroccato. Le botte arrivano a ripetizione, a rate, da tutte le parti. Il ruolo dellariete spetta alla procura di Milano. Ma cè una cosa che sorprende. Il Cavaliere non è mai stato così in difficoltà, ma i suoi avversari si stanno dimostrando molto più fragili di lui. Ogni volta che provano a portare un colpo stramazzano al suolo. Il problema è la leadership. La coalizione anti Cav è unarmata di sbandati.
Il sospetto magari cera da tempo. Solo che questa volta è senza alibi. Fini, Casini, Bersani, Di Pietro, DAlema, Veltroni, Vendola sono leader politici mediocri. Il giorno in cui Berlusconi lascerà la politica tutti questi qui si eclisseranno in fretta. Non è solo una questione di carisma o personalità. È che non incarnano alcuna idea politica che non sia lantiberlusconismo. Sono un riflesso, il negativo di una fotografia. Quello che sta accadendo in questi giorni lo sta dimostrando.
Fini, comunque vada a finire questa storia, sta dimostrando che forse era sopravvalutato perfino come numero due. Ha sbagliato i tempi della fuga, regolando il suo scatto non sui tempi della politica ma su quelli delle procure. Ed è unaltra gara. È malato di frenesia. Le sue «sfiducie» sono perle di suicidio tattico. Non ha saputo gestire il doppio ruolo di capo parrocchia e presidente della Camera. Non ha capito che doveva rinunciare al ruolo di finto super partes. Non lo ha fatto solo per non darla vinta a Berlusconi, per snervarlo. Il risultato è che ha fatto perdere la pazienza perfino a Napolitano. Il Quirinale gli aveva promesso una neutralità attiva. Finita. Il presidente ha imparato alla scuola «migliorista» a non puntare sui perdenti. Il suo partito lo sente freddo e lontano. Nulla di nuovo. Lo era anche in An. Qualcuno sperava che questa volta si spendesse un po di più. Ma nei momenti cruciali lui era sempre in vacanza. I litigi con il luogotenente Bocchino nascono anche da qui. Su Montecarlo ha giurato e spergiurato. O mentiva o è stato gabbato in casa. La gestione del cognato gli ha fatto perdere molti punti carisma. Non basta. Sta facendo il secondo anche al centro, nel terzo polo. È una condanna.
Casini è più furbo, ma continua a muoversi come un capocorrente. Forse rimpiange lalleanza con Gianfranco. Sapeva che la sfiducia a Bondi sarebbe stata una sconfitta. Ha accettato di firmarla per un basso gioco di bottega. È unidea di Fini. Sarà, come è stato, un fallimento e io chiarisco chi tra i due comanda. Cinico. Ma limitato. Lego-centrismo di Casini non ha grandi orizzonti. È come il giacobinismo di Di Pietro, supplente del partito dei giudici. Ma quando i titolari scendono in campo a lui non resta che un ruolo da comparsa. Vendola? Vendola è costretto, per avere un ruolo rilevante, a conquistare tutta la sinistra. Il vantaggio è che combatte contro il fantasma del Pd. Il suo guaio è che non ha le truppe e il suo programma politico è uno scarto del Novecento.
Bersani, DAlema, Veltroni. Gli elettori del Pd dovrebbero denunciarli per bancarotta politica. Sulle primarie si sono giocati lultima rendita. Quando perdono sono i primi a delegittimarle. Se vincono si scopre che ci sono brogli. Il partito è prigioniero di una schiera di feudatari, ognuno dei quali sponsorizza sul territorio il suo valvassore o valvassino. Il vizio antico di decapitare i segretari non gli è mai passato. Lultimo caso è un ex segretario, luomo che ha voluto il progetto Pd, che più di un anno fa se ne andò depresso e sconfitto.
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