nostro inviato a Mosca
In teoria è tutto chiaro. Come l'aquila a due teste, simbolo nazionale, la Russia da oggi avrà due zar. Uno legalmente eletto, Dmitri Medvedev; l'altro, Vladimir Putin, che diventerà primo ministro dopo otto anni trascorsi da presidente e che dunque rimarrà l'uomo forte. Così scrivono tutti e così probabilmente sarà. Ma fino a quando? Ed è davvero la soluzione migliore per il Paese?
In una Mosca velata di malinconia pochi pensano di sì. La storia russa è di ammonimento: ogni volta che il potere è stato diviso, è finita male: guerra, carestie, la rivoluzione bolscevica. No, il duopolio non può durare ed è significativo che a dirlo siano sia gli amici sia i nemici dell'attuale regime.
Alexander Dughin, presidente del movimento Eurasia, è uno dei volti più noti della Tv russa. Politologo e filosofo, non fa mistero delle proprie simpatie per il Cremlino e coltiva attentamente la propria immagine: porta la barba incolta come un pope, ha gli occhi azzurri e profondi, ma alla cinta esibisce una voluminosa pistola. Quando lo incontriamo siamo certi di ascoltare una lode del regime. E invece no. Dughin è cauto, riconosce che Putin «è stato bravo, ma anche molto fortunato in questi anni» e che «ha condotto in porto solo metà delle riforme, trascurando però le infrastrutture». Quando gli chiedi del futuro si incupisce. «Medvedev ha pochi appoggi nell'establishment; anzi, uno solo: Putin stesso. E con un presidente debole e un premier forte si crea una soluzione debole. Anzi, esplosiva». Il filosofo armato, che parla un ottimo italiano, pronostica «l'esplosione di conflitti nelle élites e nella società» e per Medvedev tre scenari: «Si confermerà un moderato, sottomesso e verrà scalzato da Putin; farà la voce grossa e allora sarà Vladimir ad andarsene; infine la situazione economica precipita e il potere verrà preso da un dittatore, forse lo stesso Putin, forse no».
Dughin esagera? Forse, ma uno degli economisti più esperti, Anatoli Ciubais, prevede per il 2010 la fine del boom consentito da petrolio e gas e dunque una crisi che sarà molto dolorosa. Stanislav Belkovski, ex collaboratore di Putin e uno degli osservatori più informati della capitale, è perentorio: «Il tandem Dmitri-Vladimir morirà prima ancora di nascere», dichiara al Giornale. Assicura che «Medvedev è molto più forte di quanto si pensi» e si dice quasi certo che «Putin non sarà nemmeno primo ministro». Ai primi di maggio, quando si compierà il passaggio di consegne al Cremlino, «uscirà semplicemente di scena». D'altronde «non è mai stato un leader forte», ma solo «il mediatore tra i 15 gruppi di influenza che governano davvero il Paese». Insomma, all'immagine roboante di un Putin di ferro non corrisponderebbe la sostanza. Sarebbe poco più di un bluff, sebbene riuscito. «Medvedev si presenta come un moderato, un amico dell'Occidente, addirittura un liberale», ma secondo Belkovsky «non cambierà nulla».
Un altro pezzo da novanta della politica russa, Boris Nemtsov, pupillo di Eltsin e uno dei leader dell'opposizione liberale a cui è stato impedito di partecipare alle presidenziali, è della stessa opinione. Ci riceve nel suo ufficio sul fiume Moscova, a due passi dalla Piazza Rossa: «I toni verso gli Usa e l'Europa diventeranno più morbidi, ma non ci saranno trasformazioni sostanziali». All'amicizia tra i due zar non crede, né alla sottomissione di Medvedev verso il suo predecessore. Dicevano lo stesso di Putin con Eltsin e sappiamo com'è andata a finire». Secondo Nemtsov «Putin vuole un ufficio da premier dentro al Cremlino e qui si gioca la partita: se ce la farà e si verrà a sapere, avrà vinto».
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