Il grido di «morte al tiranno!», che prorompe adesso dai vertici e dalla base della ribellione libica, s’inserisce in una consolidata tradizione storica. Si vuole l’uccisione sommaria del despota - che è sempre un despota deposto, quelli in sella godono di maggiori riguardi - presentandola come un atto di suprema e doverosa giustizia. È invece - anche quando il potente detronizzato sia stato feroce - una forma appena camuffata di vendetta o di spicciativo regolamento di conti.
Sono personalmente contrario alla pena capitale, ma qui si tratta d’altro che d’una questione di principio. Si tratta d’un «dagli allo sconfitto», che fa affiorare grandi indignazioni e insieme a esse meschine bassezze umane. Tra coloro che vogliono la forca o la fucilazione per l’oppressore figurano di solito molti che s’erano - quando era in auge - posti al suo servizio, che avevano assecondato i suoi vizi e lodato le sue azioni. Saddam Hussein s’era reso colpevole di orribili nefandezze, ma finché lo ritenne utile l’Occidente se lo coccolò come alleato: salvo affidarlo, dopo la sconfitta, a uno pseudo tribunale il cui verdetto era scontato.
I dittatori caduti sono consegnati al boia o al plotone d’esecuzione anche perché testimoniando raccontano cose scomode: raccontano degli omaggi ricevuti da personalità democratiche. È il solito problema d’una giustizia dei vincitori: che magari approda a conclusioni accettabili, ma riesce sospetta per un suo ineliminabile vizio d’origine.
I gerarchi nazisti condannati a Norimberga meritavano la sorte che ebbero. Senonché - l’ho scritto più volte ma giova ripeterlo - nell’aula e negli ambulacri di quel tribunale s’aggirava, per controllare che tutto funzionasse a dovere, Andrej Vishinskij, pubblico accusatore dell’Urss e protagonista ripugnante dei processi farsa staliniani. I tentativi di arrivare, con Tribunali internazionali come quello dell'Aja, a una giustizia più credibile sono meritori, ma hanno il grave difetto di colpire i vinti o di emettere a carico di chi è al potere sentenze platoniche, irrise dai condannati e ignorate da numerosi Stati.
Con cinismo pragmatico si potrebbe dire - per Gheddafi oggi come per Saddam Hussein ieri - che gli urli d’esecrazione delle piazze se li sono voluti con le loro infamie, e che è meglio lasciare che i popoli arrangino in casa le loro più torbide faccende. Diciamole pure queste cose se vogliamo. Ci saremo liberati la memoria, non la coscienza.
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