Quella voglia di normalità

(...) la sconfitta sul campo e la stella d’argento che evapora; l’espulsione di Totti; il galateo secondo Chivu; la successiva condanna mediatica più del romano che del romeno; la levata di scudi del popolo romanista a coccolarsi il proprio idolo; le parole di Mourinho sul premio a vincere al Siena. E vi risparmiamo per mancanza di fiato le sottopolemiche, le beccate minori, i rivoli di maleducazione. Roba che Nerone al confronto usava gli svedesi per accendersi le Camel Light.
Per questo diciamo: giocate. La Roma per lo scudetto (quasi impossibile), la Lazio per la salvezza (quasi certa). Ma giocate. Proviamo l’ebbrezza della normalità, il gusto di esultare per un gol fatto e di maledire il giusto un gol subito. Ritroviamo il piacere di non dover cercare ogni volta, il giorno dopo, le parole per scusarci (ma solo un po’). Chiedere perdono è una bella cosa, ma a volte sarebbe bello non avere nulla per cui farlo.
Spiace, tutto ciò, soprattutto per la Roma. Che vede schizzata di sugo la tovaglia luccicante di bucato di un campionato meraviglioso, forse il più bello di sempre. Per la prima volta la Roma ha sfiorato lo scudetto (e poi chissà mai...) senza essere costruita per farlo. La squadra di Ranieri è una folle bellissima anomalia, un «Full Monty» del pallone:scarti, prestiti, finiti, sfiniti, indizi di bidone, avanzi di panchina a far da scudieri a un re a sovranità limitata e a un pugno di campioni veri ma sempre un po’ così. Gente che il pallone d’oro se lo dipinge con l’Uniposca.

Una ciurma guidata da un allenatore sottovalutato e riscopertosi profeta in patria, al soldo di una società che soldi ne ha pochi. Ovunque basterebbe e avanzerebbe per essere contenti e orgogliosi, per scriverci poemi e peana. Ovunque: non qui. Qui siamo incazzati neri. Incorreggibile città.

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