Sono passati tanti anni, troppi, da quando organizzai la prima grande mostra di arte antica. Fu a Vicenza, nel 1980, in occasione del quarto centenario della morte di Andrea Palladio. Ero l'ispettore della soprintendenza alle Belle Arti della città. Il comitato nazionale, voluto da un antico e patinato professore, Renato Cevese, mi affidò il compito di realizzare la mostra sui pittori che avevano collaborato con il grande architetto. Era la prima occasione di studio organico su tale tema e rimandava ad artisti di varia grandezza, in particolare Paolo Veronese, Giovanni Battista Zelotti, Bernardino India, giù giù fino ad Andrea Vicentino. Ebbi l'idea di un titolo felice e insolito, nella sua icasticità: «Palladio e la maniera».
A qualcuno sembrò una provocazione, per l'accostamento tra il più classico degli architetti e le tendenze artistiche che discendevano dal magistero insuperabile di Raffaello e di Michelangelo. Era in realtà una sintesi che non saprei diversamente esprimere, ma se, oltre agli artisti ricordati, due la interpretavano in termini calzanti e perfetti, questi erano personalità eccentriche e dissonanti che tornavano protagonisti, con rinnovati studi, proprio attraverso la mia mostra. Si tratta di Giovanni Demio, irrequieto pittore di Schio, manierista estremo e radicale, e vagabondo in una lunga e instabile carriera da Milano, in Santa Maria delle Grazie, a Venezia, nella maestosa Libreria Marciana, alla Calabria: però incline più a seguire Vasari che Tiziano. E di Battista Franco, impermeabile alle suggestioni artistiche di Venezia e subito attratto dalle novità romane. Nella biografia che gli dedicò nelle Vite, Giorgio Vasari scrive che, a vent'anni, Battista si stabilì a Roma dove cominciò a copiare dai contemporanei, soprattutto da Michelangelo. A fianco di disegni rivelatori, tra il 1535 e il 1536, è una tavola con L'imperatore Augusto con la Sibilla Tiberina, la prima opera pittorica del Franco a noi nota. Nello stesso tempo creava il suo indisponente linguaggio, gonfio di reminiscenze raffaellesche (tra Moretto da Brescia, Callisto Piazza e Parmigianino) Giovanni Demio, miscelando le fonti padane nell'avventurosa pala per la chiesa parrocchiale di Torrebelvicino, che scelsi per la copertina del catalogo della mostra.
Ero molto attratto da questi due artisti eccentrici, di cultura così varia, concettuale e antiveneziana, che mi appassionai a cercarne opere inedite e rivelatrici. Fra queste, assai rare, già nel 1978 ne individuai una, apparsa a un'asta Sotheby's a Firenze, che suggerii a un giovane collezionista, colto e taciturno. Lo volli poi incontrare io, più giovane e paludato nel ruolo istituzionale alla soprintendenza di Venezia, per congratularmi per la sua scelta e garantirmi il prestito del dipinto. Era proprio L'imperatore Augusto con la Sibilla Tiberina. Così conobbi Alberto Tessiore, collezionista raffinato e schivo, con il quale iniziò una frequentazione rarefatta e complice. Di lui e della sua vita discreta non seppi mai molto, se non che viveva a Venezia e che era notaio. Lo ritrovavo, ironico e sagace, nelle sale d'asta veneziane e fiorentine, dove bastava uno sguardo per capire dove andava la nostra attenzione. Lui collezionava con avvedutezza e un gusto infallibile. Qualche anno dopo iniziai anch'io, e presto mi imbattei in una piccola e preziosa tavola di Battista Franco. Passati quarant'anni dalla mia prima visita alla sua collezione, mi arrivarono telefonate e inviti, attraverso il comune amico Tommaso Ferruda, per vedere la sua casa sul Canal Grande, Palazzo Molin, davanti a San Stae, nel frattempo diventata una fondazione. La curiosità per i dipinti, le sculture e i libri si era fatta, nel corso degli anni, onnivora, in un singolare rispecchiamento della mia esperienza. Tessiore aveva dedicato la sua vita a costruire un tempio, con discrezione, senza fare rumore. Ma la misura della riuscita della sua impresa era non solo nella coerenza e nella qualità delle sue scelte, ma nel sentimento di benefica e dolorosa invidia che davano, e non solo a me, i suoi acquisti. Avrei voluto avere io, e l'ho incrociata, la preziosa e capricciosa Natività di Ludovico Mazzolino, ferrarese di fantasia sperimentale, con quella presenza d'ordinanza del pastore e, sul fondo, tra impervi picchi e rupi, il corteo dei Magi e una parata di santi: Giovanni Battista, Francesco, Sebastiano, Gerolamo, la Maddalena, Agostino. Tessiore conosceva la magia di Mazzolino descritta nel suo Cicerone da Burckhardt, che ne vedeva i dipinti risplendere nelle gallerie per i colori vividi come pietre dure. Nelle stanze gremite di quadri e sculture ci aspettavano altre sorprese, fra le quali un incredibile e irrinunciabile Antonio Carneo, pittore friulano capace di rendere visionario il naturalismo caravaggesco, uscendo dalla violenza compiaciuta di un pittore tenebroso come Langetti, per avviarsi, con una tecnica formidabile di impasti e tocco gestuale, a trasformare il mito violento di Prometeo in un incubo. Davanti a quel dipinto ho compreso una componente misteriosa della sensibilità di Tessiore, tormentato, angosciato, nella apparente compostezza. Nella sua intimità viveva con la moglie, sofferente e distante, senza coscienza, in un letto di pena. Alle pareti i quadri dei veneti, Antonio Diziani, Pietro Vecchia, Sebastiano Mazzoni, Paolo Farinati, attenuavano quel dolore senza riparazione.
Alla infinita distanza della moglie vicina sembrava compensare l'apparizione, presente, di un dipinto fascinoso che rappresenta una giovane discinta. Difficile, sulle prime, riconoscerne l'autore e il soggetto: la donna non è Venere, non è Lucrezia, non è Cleopatra, non è Danae, ma semplicemente una donna in camicia da notte nell'alcova, appena sfilati gli zoccoli, colta di sorpresa da uno scoiattolo che le si agita davanti. La sua reazione è immediata, apre appena le gambe, muove le mani concitata. A prima vista la pittura appare veneziana, con le screziature luminose dei velluti, la tunica bianca vibrante. Tintoretto, Veronese, Montemezzano, ma nessun nome veneziano le conviene. Vi si sente, più convenientemente, la pittura veneziana reinterpretata dai pittori bolognesi, come Annibale Carracci. In realtà, su quella stessa pista, il nome dell'autore corrisponde a un piccolo maestro di straordinario talento, acrobatico, morto così giovane da non lasciar quasi traccia, se non per gli intendenti: Pietro Faccini. Il più raffinato e il più autentico dei pittori. Pittore di vita. Non so se nella scelta di questo dipinto Tessiore avesse avuto coscienza del difficile autore o attrazione per la tenerezza delle carni di quella donna dipinta, più viva di una donna reale, con il corpo caldo nella intimità dell'alcova, fino a sentirne il profumo, il tepore delle carni, la soave morbidezza.
Oggi, quest'uomo discreto se ne è andato, e ha portato con sé il suo segreto, il suo rifiuto del mondo per trovare nelle opere d'arte le uniche persone viventi e amiche, amate e amanti. Qualche mese fa comunicai con lui a distanza, attraverso il fedele Gabriel, per ottenere in prestito l'opera più imponente e menzognera della sua collezione: un angelo di Alceo Dossena, concepito al tempo del monumento funebre di Caterina Savelli, e venduto al Museo di Boston. Per la seconda volta, dopo quarant'anni, acconsentì alla mia richiesta smontando un pezzo del portego della sua casa, con gru che ne violarono l'intimità. Un trasporto difficile, ma un altro segno di amicizia. A dirci la sua sofferenza in quei giorni, mi arriva il messaggio laconico e rivelatore del suo assistente, compostamente commosso: «Buonasera Professore, purtroppo le brutte notizie Le sono già pervenute: il caro Tessiore è mancato.
Ha sofferto molto questi ultimi tempi sopratutto per non poter parlare: avrebbe voluto fare grandi chiacchiere con Lei durante la Sua visita in casa, che è stata una grandissima gioia. Grazie ancora per quanto ha fatto per il Notaio».Ora quell'angelo di Dossena, atterrato a Rovereto, al Mart, testimonia per lui, e vigila sul suo cenere muto.
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