Caro Granzotto, aveva davvero ragione Oscar Wilde quando diceva: «Non discutere mai in pubblico con un cretino, perché il pubblico potrebbe non capire la differenza!». Un articolo di Giulio Meotti affronta il problema della nobile arte delloffesa gratuita a personaggi pubblici utilizzando loro veri o presunti difetti fisici, arte in cui sono campioni esponenti della sinistra, vera o fasulla che sia. Meotti riporta correttamente la teoria pseudoscientifica di Cesare Lombroso, ma Lombroso non aveva intenzioni diffamatorie: pensava (sbagliando) di aver scoperto che certi criminali avessero caratteristiche fisiche specifiche, soprattutto nel viso e nella conformazione cranica, che non si riscontravano nelle persone normali. I nostri eroi sinceramente democratici, invece, fanno dello sberleffo e della cattiveria gratuita un uso «politico», attaccano lavversario colpendo basso. Quando Umberto Eco paragona Berlusconi a Hitler, quando Furio Colombo definisce «miniministro» e DAlema «energumeno tascabile» Brunetta, quando Vauro rappresenta Fiamma Nirenstein come un mostro e le piazza sul petto la stella di David, il fascio littorio e il simbolo del Pdl, si fa giornalismo o si alimenta la fabbrica del fango? Quando Travaglio definisce Belpietro «via col mento» e Sallusti «zio Tibia», quando Camilleri afferma che la Gelmini «non è un essere umano», è giornalismo dalta scuola o cretineria allo stato puro? Non possiamo metterci sul loro infimo piano e ripagarli con la stessa moneta. Meglio ascoltare il consiglio di Wilde, pubblicizzare le loro miserabili invettive e lasciare il giudizio ai lettori e agli elettori. Però, che pena!
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Se ricordo bene cè un libro di Bruno Caruso titolato, da una considerazione di Flaiano, Credono di essere noi. È riferito ai tardi e scalmanati frequentatori della Via Veneto post-dolce vita e del Caffè Rosati in Piazza del Popolo dopo che per ragioni varie, non ultima quella anagrafica, labbandonasse un cenacolo intelligente e autoironico che illuminò di sé la Roma degli anni Sessanta. Ecco, caro Solazzi: Vauro, Eco, Travaglio, Furio Colombo, Camilleri e compagnia bella credono di essere dei Longanesi, dei Flaiano, dei Maccari, dei Gadda, dei Giovannino Russo, dei Vincenzino Talarico, dei Carlo Laurenzi e dei Carlo Mazzarella, formidabili coniatori di scherzosi eppur micidiali soprannomi. Gliene scelgo una manciata fra i cento: «Sciupone lAfricano» (Emilio Fede, per via delle sue imperiali note spese di inviato nel Continente nero), «Una lacrima sul video» (Sergio Zavoli), «Lantico tastamento» (Francesco Trombadori, per il suo vezzo di azzardare, in età più che matura, quel «palpeggiamento concupiscente» che è lincubo del repubblicone Giuseppe DAvanzo), l«Incantatore di sergenti» (Filippo de Pisis, che aveva un debole per le giovani reclute), «Picassata alla siciliana» (Renato Guttuso), il «Dandy cariato» e «Pancia competente», riferiti a personaggi i cui nomi taccio.
Quei tizi che vorrebbero imitarli, essere loro, e che tanto le fanno pena, caro Solazzi, sarebbero stati definiti da Ennio Flaiano (non da me, sia chiaro. Non mi permetterei mai) cretini sì, ma di quelli illuminati da lampi di imbecillità, lampi rappresentati dai fessissimi quando non triviali nomignoli che riescono a escogitare. A proposito dei quali e visto che siamo in argomento, torna alla mente il soprannome che lavvocato Agnelli - il quale quando voleva ci andava giù deciso - forgiò per uno dei personaggi da lei citati e la cui identità le lascio indovinare: «checca afgana».
Paolo Granzotto
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