Cosa manca alla nostra democrazia

Perché un uomo che ha servito il Parlamento per decenni, che è stato ministro e che oggi ricopre con sobrietà e equilibrio la seconda carica dello Stato, non potrebbe essere un presidente riconosciuto da tutti?

Cosa manca alla nostra democrazia
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Come spesso accade, Matteo Renzi arriva un passo prima degli altri. E così, dal palco dell’Assemblea Nazionale di Italia Viva a Genova, ha rivelato ciò che da tempo agisce da collante implicito - e a volte esplicito - delle sinistre italiane: la necessità di evitare, ad ogni costo, che il centrodestra possa eleggere, nel 2027, un presidente della Repubblica proveniente dalla propria storia politica.

L’ex presidente del Consiglio sa bene che tale scenario non metterebbe minimamente a rischio la stabilità democratica del Paese.
Tuttavia, rappresenterebbe la fine di un’asimmetria che ancora oggi condiziona il racconto pubblico e giustifica una doppia morale nel giudizio sulla legittimità democratica, a seconda del pedigree ideologico di provenienza. Un meccanismo culturale che consente, alle sinistre divise su quasi tutto, di ritrovarsi ciclicamente unite sotto la bandiera di un ipotetico «pericolo fascista» - un fantasma che la storia ha dissolto ormai ottant’anni fa, quando nessuno degli attuali protagonisti politici era ancora nato.

Il ricorso a questo feticcio, più scolorito che temuto, ha avuto nella storia repubblicana una funzione utilitaristica e a tratti cinica: un collante ideologico strumentale al potere, utile ad attaccare l’avversario e a velare con l’antifascismo ogni altra contraddizione.

Del resto, se negli anni ’40 il Partito Comunista Italiano - nella versione più sovietica e forse più astuta dei suoi leader - accettò senza troppi scrupoli l’amnistia che reintegrava nei ranghi della Repubblica i funzionari dell’apparato statale del regime, la sinistra ha poi mantenuto l’ipocrisia di una narrazione autoassolutoria. Una narrazione che, in nome dell’antifascismo, ha impedito per decenni una lettura lucida e corretta dei percorsi di cambiamento avvenuti nel campo avverso.

Questo doppio pesismo ha attraversato la storia istituzionale del nostro Paese.

Mentre in Unione Sovietica si puntavano i missili sull’Europa e si reprimevano i moti di libertà in Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e Germania Est, in Italia esponenti organici a quella cultura politica - nata per abbattere le democrazie liberali - accedevano legittimamente ai vertici dello Stato. Prima ancora del crollo del Muro di Berlino, dirigenti del Pci sedevano alla presidenza delle Camere; e meno di dieci anni dopo quel crollo, un ex comunista, Massimo D’Alema, entrava a Palazzo Chigi.

La destra italiana, al contrario, ha dovuto attraversare un percorso di legittimazione lungo, complesso e spesso ostacolato. La svolta di Fiuggi, la nascita di Alleanza Nazionale, la partecipazione ai governi Berlusconi, l’abiura di ogni totalitarismo, il dialogo con Israele: nulla di tutto ciò è mai bastato alla sinistra per concedere piena cittadinanza democratica a quell’area politica. E infatti, per vedere una premier dichiaratamente di destra - peraltro la prima donna a ricoprire quel ruolo - sono dovuti passare ottant’anni. Non importa se i legami con il passato si sono spezzati da tempo: in questo caso, le colpe dei padri ricadono sui figli, anche quando i padri sono putativi, scelti da altri e mai riconosciuti dalla «prole».

E allora, al contrario di quanto Renzi ha sostenuto, io credo che il vero esame di maturità del nostro sistema democratico debba ancora compiersi. E si compirà quando- se i numeri lo consentiranno -un presidente della Repubblica potrà essere eletto anche dalla destra, senza remore, senza sospetti, senza bisogno di agibilità politica concessa da altri. Lo dico da uomo di centro, che ha avuto l’onore di votare Sergio Mattarella come rappresentante della propria Regione e che avrebbe volentieri visto al Quirinale figure come Pierferdinando Casini o Mario Draghi. E con quello stesso spirito oggi dico: Ignazio La Russa, perché no?

Perché un uomo che ha servito il Parlamento per decenni, che è stato ministro, coordinatore di un grande partito democratico come il Popolo delle Libertà, e che oggi ricopre con sobrietà e equilibrio la seconda carica dello Stato, non potrebbe essere un presidente riconosciuto da tutti? Napolitano lo fu, pur non avendo mai ricevuto i voti della destra - che tuttavia non ne ha mai disconosciuto il ruolo.

Non so se La Russa - verso cui nutro stima e amicizia - mi perdonerà la citazione, né se abbia (e ne dubito) l’ambizione di salire al Colle.

Ma credo che, con buona pace del riformismo progressista tanto sbandierato da Renzi, sarà solo quando un Presidente del Senato, orgoglioso della propria cultura politica coltivata sempre dentro le regole della democrazia, diventerà un avversario e non uno spauracchio, che la sinistra - non la destra - avrà superato il proprio vero esame di maturità.

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