Il razzismo sociale di Scalfari

Nel suo editoriale il guru di Repubblica rimpiange il muro italiano, che divideva operai e borghesi. Quanta nostalgia per quel Paese senza il disprezzato "popolo della partita Iva" vicino al centrodestra

Il razzismo sociale di Scalfari

Il patriarca con la barba bianca non ha ancora comprato una Trabant, ma le vecchie videocassette di «Tribuna politica» probabilmente sì, con la «esse lisca» di Jader Jacobelli e gli occhiali da mister Magoo di certi politici incravattati nelle sere fredde della tv a due canali. Memorabili quegli anni. A quel tempo Eugenio Scalfari scriveva a quattro mani con Biagi Come andremo a cominciare, un carteggio già allora scettico, malinconico, con tutta la buona grazia del pessimismo aristocratico sulle stagioni che passano. È un vezzo che il fondatore di Repubblica porta con sé da una vita. Questa volta lo spleen ha a che fare con il Muro di Berlino. Scalfari ne parla come sempre di domenica. Sono passati vent’anni da quelle notti di novembre e su una cosa, il fondatore, ha ragione: sembra un secolo. È caduto tutto il Novecento, lasciando orfani i suoi sacerdoti e patriarchi. Quelli come Scalfari.

È questo il vero virus di tanti intellettuali che sono diventati grandi e famosi nella prima Repubblica. Si chiama Ostalgia ed è quella tendenza a dire che si stava meglio quando si stava peggio. È la malattia di chi quel maledetto Muro caduto vent’anni fa se lo porta nella testa, come certi reduci della Ddr che ogni anno s’incontrano in Sassonia, a Zwickau, seduti al volante di una Trabant, assurda utilitaria di plastica e cartone pressato, simbolo di un mondo in bianco e nero, facile da decifrare, senza libertà, ma con la coperta triste delle grandi ideologie andate a male. È la nostalgia di certe oligarchie burocratizzate, che campavano sulle rendite di uno Stato sociale che regalava privilegi, sacche di denaro pubblico da distribuire agli amici degli amici, il Cencelli della Rai e delle poltrone, la tessera di partito, la coperta di Linus da acquistare a Botteghe Oscure o a piazza del Gesù.

Scalfari rimpiange Andreotti, De Mita, Berlinguer, Forlani, Spadolini e senza dubbio Ugo La Malfa, il repubblicano conservatore che ritardò l’arrivo della tv a colori nelle case degli italiani. Costavano troppo, disse il padre della patria, e gli italiani si sarebbero indebitati, sommersi da una pioggia di cambiali. È questa l’Italia in cui Scalfari si riconosce, quella che ha vissuto come sua, dove aveva ruolo, potere e riverenze. Ma non è solo una questione di volti, anni o di sigle e di partiti. Non è solo la nostalgia per Pci, Psi, Dc, Psdi, Pri, Pli, Pdup, Psiup, pentapartiti, convergenze parallele e tutta la filastrocca rinogaetanesca del Nuntereggae più. Nel suo guardarsi indietro c’è soprattutto una sorta di razzismo sociale verso una classe che non ama. È un’antipatia a pelle, viscerale, antropologica per il «popolo dei bottegai». È questo il guaio della caduta del muro italiano della prima Repubblica. Sulla scena politica e sociale sono entrati questi qui. Questa classe media senza colletti bianchi, tutta gente che non andava in ufficio, non era Stato o parastato, non era burocrazia e posto fisso, ma un esercito di idraulici, commercianti, ex muratori che negli anni del boom edilizio si erano messi in proprio, meccanici, elettricisti, piccoli imprenditori di scarpe, manifatture, dolciumi, ex contadini emiliani con il cervello per gli affari, pastori diventati ricchi con il tartufo, negozianti di auto, moto e affini, venditori di televisioni, lavatrici e dvd, tutti quelli che non amavano le tasse e si sudavano la partita Iva.

Questo mondo che nessun partito della prima Repubblica rappresentava, perché sfuggiva alla tradizionale divisione ideologica e binaria del «borghese vs operaio». Questa gente non finiva nei romanzi, non andava in paradiso, non sognava la rivoluzione. Erano i senza casta della partitocrazia. È lo stesso Scalfari a scrivere che gli invisibili sono stati intercettati e riconosciuti da Berlusconi e da Bossi. Lo dice qui: «La classe operaia si era sfaldata, un ceto di artigiani, piccoli e piccolissimi imprenditori-lavoratori aveva popolato di officine e capannoni la larga fascia che da Brescia si irradia verso Treviso da un lato e la Romagna e le Marche dall’altro. Milioni di persone non avevano altro desiderio che di abbattere i famosi lacci e lacciuoli, cioè le regole che presidiano il corretto funzionamento del mercato, e di poter correre, anzi galoppare, in una sterminata prateria dove mettere alla prova la loro capacità di iniziativa e di laboriosità. Magari aiutandosi anche con il lavoro nero e con l’evasione fiscale contro le dissipazioni di Roma ladrona». È questo il peccato: lavorare e guadagnare contro uno Stato dissipatore. È stata la rivolta dei «liberali di fatto». Ed è vero, si sono riconosciuti in quella destra post muro senza ideologie. Scrive Scalfari: «La Lega lavorò su questo tessuto sociale. Berlusconi lo amplificò su scala nazionale».

Questo è il Muro che è caduto in Italia.

Gli invisibili sono diventati visibili. Il vecchio patriarca ora invoca la società civile (simulacro dei colletti bianchi) a mettere fine a questa sciagurata avventura. Vent’anni dopo il Muro le vecchie élite della prima Repubblica sognano la Restaurazione.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica