
nostro inviato a Venezia
La Mostra del cinema di Venezia, 82ª edizione, si apre oggi, come sempre, con il rito del red carpet, i lampi dei fotografi, i sorrisi obbligati delle star e il corteo infinito degli abiti firmati. Un rituale mondano che da decenni costituisce parte integrante dello spettacolo: non è solo cinema, ma vetrina, passerella, perfino teatro. Quest'anno, tuttavia, lo sfarzo del tappeto rosso sembra poggiare su un terreno più sdrucciolevole del solito: accanto al glamour, la guerra fa irruzione nei programmi, e le contestazioni politiche si annunciano già come una colonna sonora inevitabile.
Non è solo questione di film. Certo, nel cartellone figurano cinque titoli che affrontano direttamente i conflitti: The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania, testimonianza brutale di una bambina palestinese intrappolata a Gaza; A House of Dynamite di Kathryn Bigelow, thriller che mette in scena il timore della bomba atomica; The Wizard of the Kremlin di Olivier Assayas, ritratto di potere e guerra ideologica attraverso la parabola putiniana; Orphan di László Nemes, che riporta alla rivolta ungherese del 1956 filtrata dagli occhi di un bambino; e infine Lo straniero di François Ozon, che traduce Camus in chiave esistenziale e coloniale. Una rassegna che non teme di gettare lo spettatore nella durezza del conflitto. Ma il problema non si ferma ai film. A spostare l'attenzione è la piazza: i gruppi pro-palestinesi hanno già annunciato proteste, intenzionati a trasformare la Mostra in un tribunale simbolico contro Israele. L'obiettivo dichiarato: sabotare la presenza di artisti israeliani o anche solo considerati "troppo vicini" a Israele, chiedendone l'esclusione dalle proiezioni, dai premi, dai palcoscenici. In altre parole, imporre una censura preventiva che nulla ha a che vedere con il cinema e tutto con la politica militante. Qui si rivela il paradosso: mentre sullo schermo si moltiplicano i racconti di guerra, dolore, libertà e resistenza, fuori dalla sala si tenta di imporre la logica del bavaglio. In nome della pace, si invoca la cancellazione; in nome della giustizia, si chiede l'ostracismo di persone per la loro nazionalità o per un'opinione politica reale o presunta. È la degenerazione tipica dei tempi: non più critica, ma epurazione. Non più confronto, ma delegittimazione. Eppure, la storia della Mostra è costellata di esempi che dovrebbero mettere in guardia. Il cinema ha perso ogni volta che ha ceduto alle pressioni ideologiche. Negli anni Trenta la Mostra fu piegata alla retorica fascista, e ne rimase marchiata per decenni. Negli anni Settanta, i boicottaggi politici trasformarono il festival in un ring ideologico, soffocando il dibattito artistico. Oggi, a distanza di mezzo secolo, il rischio si ripresenta in una forma aggiornata: il tribunale mediatico, che decreta chi può parlare e chi no. Il caso è particolarmente grave quando riguarda gli attori. L'attore, per definizione, interpreta: presta il volto, la voce, il corpo a un personaggio. Pretendere che il suo passaporto o la sua opinione personale lo rendano inammissibile a recitare significa confondere l'arte con la militanza. È la vecchia tentazione di processare le persone per appartenenza. Una scorciatoia pericolosa che conduce dritti al linciaggio morale. Si può anzi si deve discutere di politica, di conflitti, di responsabilità storiche. Ma chiedere di zittire un attore israeliano, o anche solo di escludere chi non si schiera secondo i canoni di una parte, equivale a introdurre nel cinema un meccanismo di censura che nulla ha a che fare con la libertà dell'arte. Non è difesa della pace: è semplicemente la guerra condotta con un altro mezzo, la propaganda.
Ecco allora la contraddizione: Venezia è tornata a essere il tempio del cinema mondiale. Ora si rischia di trasformarla nello specchio deformato delle nostre nevrosi politiche. Sullo schermo vedremo storie di resistenza, di popoli oppressi, di dittatori e rivoluzioni. Ma al di fuori, in nome di quelle stesse storie, si tenterà di imporre la legge del silenzio a chi non appartiene al fronte giusto. Una giustizia selettiva che più che liberare, incatena. Si dirà: la guerra di Gaza è un dramma, e la sofferenza palestinese non può essere ignorata. Verissimo. Ma una cosa è portarla al cinema, un'altra è usarla per imporre a una rassegna cinematografica l'esclusione di un attrice colpevole di essere orgogliosamente israeliana.
Il risultato è che quest'anno il tappeto rosso rischia di essere più simile a una trincea che a una passerella.
Tra star in abito da sera e manifestanti con cartelli, tra riflettori e cori di protesta, Venezia offrirà ancora una volta lo spettacolo della nostra epoca: l'impossibilità di separare l'arte dalla politica, la tentazione di ridurre tutto a schieramento. Eppure, se l'arte ha un senso, è proprio quello di resistere a questa logica.