Cultura e Spettacoli

Il regale rampollo che amava le beffe e odiava le guerre

A Torino, tra il 1925 e il 1930, fece davvero la bella vita. Esplosero i suoi 20 anni e si rivelò uno degli spiriti più beffardi della buona società. Col fascismo non legava e una delle sue prime vittime fu un alto gerarca del regime. Costui si vantava di non vestire altro abito che la divisa orbace. Era un tipo tosto e gli si poteva credere. Ma il Nostro scommise con gli amici che lo avrebbe costretto a indossare abiti borghesi. I compagni di bagordi puntarono forte, convinti che avrebbe perso la posta. Il giovanotto invitò tutti l'indomani nella sua villa con laghetto per un pic nic col gerarca. Quando arrivò il fascista lo fece salire su una barca per un giretto prima del pranzo. Qualche colpo di remi, giusto per allontanarsi dalla riva, e la barca, il cui fondo era stato manomesso, si inabissò. L'ospite riemerse zuppo e, lasciato l'orbace a asciugare al sole, fu costretto ad accettare dal burlone un abito d'emergenza. Era una di quelle eleganti flanelle chiare, morbide e larghe, per le quali il Nostro andava famoso. All'epoca, era un arbiter elegantiarum. La sua figura alta e dinoccolata, i capelli corti sportivi, l'eleganza innata accendevano la fantasia dei connazionali che, vedendolo spesso sulle foto nei giornali, ne scimmiottavano le posture.
Il giovanotto aveva, fin da piccolo, dettato la moda. Fu il primo bambino a vestire alla marinara, suscitando una febbre imitativa che trasformò l'Italia in una nazione di marinaretti e marinarette. Cresciuto, impose il capellaccio floscio con un alto nastro nero e i pullover senza maniche a rombi. Era al culmine del suo fascino quando usciva a cavallo dalla caserma del 91° Reggimento di Fanteria di cui era un tenentino. Le fanciulle torinesi si appostavano all'ingresso per vederlo passare e contemplarlo mentre scendeva agilmente di sella e entrava in un bar a prendere un caffè. Un occhio critico avrebbe senz'altro notato nel suo stile un eccesso di impronta militare. Sedeva senza mai appoggiare le spalle allo schienale e, stando in piedi, o era sull'attenti o nella posizione soldatesca del riposo. Ma le ragazze non badavano alle quisquilie e lo sognavano la notte.
Ebbe centinaia di flirt documentati, ma di tutti manca la prova che si siano conclusi come vuole natura. Spesso anteponeva il gusto della beffa al fascino del talamo. Una volta avrebbe dovuto trascorrere la notte in villa con una baronessa innamorata. La signora era fissata coi fantasmi e la magione, molto antica, era perfetta per sue ubbie. Il Nostro preparò accuratamente lo scherzo. A una lepre fece attaccare dei gusci di noce sulle zampe. Quando la nobildonna, che per tutta la serata aveva parlato di spettri, entrò nella sua stanza, mancò la luce. A tentoni, rovesciò egualmente la coperta per infilarsi nel letto e aspettare la visita del castellano. Sbucò invece la lepre che prese a saltare nel buio con un baccano d'inferno per via delle noci. La poveretta che nell'oscurità non poteva capire cosa stesse accadendo, svenne per il terrore. L'indomani il Nostro, par farsi perdonare, donò all'ospite un gioiello tempestato di diamanti a forma di U. Questo ornamento a ferro di cavallo, sempre lo stesso, era il regalo che il buontempone faceva a tutte le sue vittime. Dagli e dagli, le palanche si esaurivano e il giovanotto dovette sempre più spesso ricorrere al babbo. Costui, pur essendo più che benestante, alla fine si stufò. Convocò il rampollo a Roma, dove abitava per ragioni d'ufficio, e da parsimonioso piemontese qual era, gli fece un liscio e busso concludendo seccamente: «Insomma, fa nen 'l grandious».
Prima del suo fastoso matrimonio, il Nostro si concesse un'ultima avventura con una sciantosa di Alessandria, Carla Mignone. Di Carla era innamorato anche Cesare Pavese che avrebbe volentieri preso a schiaffi il rivale. Provocò pure un incontro. Ma lo scrittore, tutt'altro che un Adone, fu annichilito dalla prestanza dell'altro e, travolto dal suo fatalismo, mollò la presa.
Nonostante le apparenze però, il Nostro era nato sotto una cattiva stella. Lo scintillante periodo torinese, fu solo una parentesi in una vita sfortunata, accentuata da un animo chiuso. Quando vide la luce, pioveva che Dio la mandava. Quando partì senza ritorno dall'Italia, ci fu un tornado sopra la Sardegna. Al suo funerale imperversarono tuoni e fulmini. La contessa Giulia Trigona che lo tenne in braccio al battesimo fu uccisa dall'amante sette anni dopo in un albergo romano. Diventato generale, vide con chiarezza che l'esercito era impreparato per la guerra che Mussolini voleva combattere al fianco di Hitler. Ne parlò con Galeazzo Ciano, sperando vanamente che il genero potesse dissuadere il suocero. Scoppiato il conflitto, chiese il comando dell'Armata Ovest sulla frontiera francese. L'obiettivo era tranquillizzare i cugini d'Oltralpe, cui lo legavano ragioni familiari, che l'Italia mai li avrebbe attaccati. Fu invece proprio quello il primo bersaglio del Duce. Toccò così al Nostro ordinare l'attacco alla Francia, contro ogni fibra della sua natura.
Morì di tumore osseo a 78 anni.

In solitudine come, in fondo, aveva sempre vissuto.
Chi era?

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