Roma - Inseguire un pescespada per il mar dei Caraibi come il vecchio pescatore di Hemingway è complicato. Meglio accanirsi sulla Trota che si rigira spaesata nel lavabo. Ed è questo che mezza Italia sta facendo con Renzo Bossi, il figlio 21enne del Senatur candidato dalla Lega a Brescia. Cento gruppi su Facebook lo insultano, la coscienza civile si ribella per la discesa in politica di un pluribocciato alla maturità, il Paese riscopre la sua dignità e la sua purezza meritocratica. Che non essendo mai stata utilizzata in sessant’anni, sa ancora di naftalina ma è come nuova.
Vi piace pescare facile, eh? Infiocinare Renzo Bossi, uno che pure il padre sacramenta di mazzate, è l’unica battaglia talmente ovvia da poter unire l’Italia dei conformisti radical chic. Peccato che l’indignazione, oltre che sovraproporzionata rispetto al personaggio, sia pure tardiva e ipocrita. Perché la crociata contro i figli di papà in politica è in ritardo di una dozzina di lustri, dato che questa Repubblica - più che sul lavoro - è fondata sul nepotismo. Che a volte dà buoni frutti, altre no. Ma che suscita sdegno solo per partito preso.
Si va da Giorgio La Malfa, figlio del fondatore del Pri Ugo, a Mariotto Segni, carne della carne dell’ex capo dello Stato Antonio. Politici che hanno attraversato tutta la prima Repubblica, navigando a vista tra partiti, referendum, «elefantini» e foglie d’edera. Non risulta che nessuno si sia mai strappato le vesti per la loro entrata nell’agone civile. Al massimo, la gente ha smesso di votarli. Così come nessuno ha mai urlato allo scandalo per il testimone di Bettino passato nelle quattro mani di Bobo e Stefania o se il padre di Dario Franceschini, Giorgio, era deputato dc.
Serviva lui, Renzo, per togliere le fette di salame dagli occhi della sinistra illuminata. Serviva l’ittico erede di leader leghista per capire che «si è sempre figli di qualcuno». Un «figlio di» in America è diventato pure presidente, figuriamoci da noi, dove un cognome significativo può farti saltare pure le code alla posta. Eppure no, prima della Trota tutti a bocca aperta come «buddaci», quei pescetti dello Stretto tanto fessi da ingurgitare tutto, ami inclusi. Tutti lì a pensare che se uno era nell’empireo dei politici, doveva per forza splendere di luce propria. Nessuno che si chiedesse se Massimo D’Alema fosse solo omonimo del padre Giuseppe (senatore Pci), se Maura e Dario Cossutta non fossero discendenti di tovarish Armando.
Non sono le colpe dei padri a ricadere sui figli, ma le cariche e le tessere. E di certo da prima che Umberto Bossi concedesse a suo figlio di entrare in lista. In lista, non nel listino bloccato. Il che fa differenza, perché se l’elettore considera più «pesante» la sua impreparazione rispetto al suo cognome, col cavolo che la Trota viene eletta: fa la figura del pirla e resta a casa. Eletti, invece, sono stati a vario titolo la parlamentare pd Daniela Cardinale, erede dell’ex ministro Salvatore che ritirò la sua candidatura con la promessa di un posto per la figlia; Enrico La Loggia, ex ministro forzista e figlio di Giuseppe, già presidente democristiano della Regione Sicilia; Giovanni Russo Spena, comunista nato da Raffaello, senatore dc. E ancora il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola (suo padre Ferdinando fu fondatore della Dc di Imperia), Giuseppe Cossiga, deputato del Pdl, sottosegretario alla Difesa e figlio del presidente emerito e picconatore Francesco.
Malcostume o genetica predisposizione alla politica, cambia poco. I figli seguono le orme dei padri da decenni nella completa accondiscendenza di chi li vota. Rosa Russo Iervolino è figlia di Angelo - ministro con De Gasperi - e di Maria De Unterrichter - parlamentare dc; la senatrice pd Franca Chiaromonte ha imparato i segreti della sinistra dal padre Gerardo, parlamentare comunista; l’ex udeur Pino Pisicchio è stato cresciuto a politica e orecchiette da papà Natale, parlamentare in cinque legislature. Si cresce in un ambiente e spesso è più comodo non uscirne mai. Specie se i genitori che «tengono famiglia» rendono la culla più confortevole.
Comunque i rigurgiti di orgoglio sono sempre ben accetti, anche parziali. Salutiamo con gioia questo «niet» contro i figli di papà. Un «niet» a posteriori, dopo i vari figli di Fanfani, Moroni e Misasi infilati nelle liste. D’altronde neppure la candidatura alla Provincia di Campobasso di Cristiano Di Pietro, figlio di tanto ingombrante e immacolato padre, aveva mosso le coscienze come ha fatto Renzo Bossi. Lui, nordico bambascione dalle magliette volgarotte, ha unito i sepolcri imbiancati e gettato le basi per un Paese responsabile ma tanto fariseo da suscitare perfino la difesa di papà Umberto: «Ha voglia di fare politica, è attivo nel Bresciano e sta studiando, che problema c’è?».
Ma il Paese ha mostrato il pollice verso ed è pronto a togliere i diritti politici ai figli di parlamentari.
Sarebbe un bel disegno di legge da Direttorio per un’Italia più rigorosa. Così se ne riparlerebbe tra due generazioni e si passerebbe dai «figli di» ai «nipoti di». E il nepotismo sarebbe finalmente fondato anche dal punto di vista lessicale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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