Politica

«Remake» dell’antica Roma L’America aspetta i barbari

L’intervista di Paul Kennedy al Corriere di domenica 6 agosto ripropone il tema del declino e caduta dei grandi Imperi tema ispirato al capolavoro di Edward Gibbon «Decline and fall of the Roman Empire».
Ci sono forse orde barbariche ai confini dell’Occidente pronte a travolgere ogni difesa a saccheggiare chiese e a violentare vergini consacrate? No, soltanto un problema di deficit e un declassamento del grado di solvibilità del debito pubblico americano perpetrato (peraltro con clamoroso errore aritmetico) da Standard & Poor da tripla A ad AA+. Eppure tutti aspettano con il fiato sospeso quello che succederà domattina, lunedì sui mercati finanziari. Nell’era informatica non è più questione di orde a cavallo: basta un clic sul computer per mettere in ginocchio una nazione di cento o duecento milioni di abitanti. E il dito su quel mouse lo può metter chiunque anche noi semplici privati cittadini per abbandonare un btp in cambio di un meno redditizio ma più sicuro bund. Dal 1941 ad oggi non era mai successo che il tesoro americano subisse un declassamento, né era mai incorso in una serie di crisi economiche una peggio dell’altra dal 1929. Siamo dunque al declino preludio alla caduta dell'Impero americano? E si possono fare confronti con ciò che accadde all'impero romano nel quinto secolo?
Edward Luttwak, anni fa, scrisse "La grande strategia dell'impero romano" per mostrare come gli antichi signori del mondo avessero saputo saggiamente amministrare la loro decadenza e Paul Kennedy ribadisce che tutti gli imperi sono destinati a declinare e a cadere, solo questione di tempo. L'importante è che si tratti di un declino lento e guidato. I crolli improvvisi sono sempre traumatici.
L'apice dello zio Sam è stato la discesa sulla luna dell'astronave Apollo e molti quel giorno cominciarono a fantasticare di voli su Marte. Si sbagliavano: il progresso del terzo millennio sarebbe stato di tipo informatico, ossia il potere sarebbe stato di chi sa prendere decisioni nel tempo di un clic. Difficile dunque fare paragoni con l'impero romano che per apprendere di un cedimento della frontiera nel suo centro decisionale doveva attendere almeno due settimane, tempo brevissimo tuttavia per quei tempi lontani. Ma la finanza ebbe un ruolo in quei frangenti? Ci furono declassamenti?
In un certo senso: l'economia è sempre fondamentale nella vita di uno stato e nell'efficienza di un esercito ma le condizioni sono qui, come già si è detto, molto diverse. L'impero romano dovette sostenere una pressione sui confini di trecento anni quasi ininterrotti con uno sforzo militare immane. Sotto Adriano l'esercito contava trentasette legioni schierate sui confini e sulle retrovie, con un numero di soldati non di molto inferiore a quello dell'esercito americano di oggi. Il costo di un simile apparato impegnato continuamente a rintuzzare invasioni su una frontiera che si estendeva dalla Britannia al golfo persico era iperbolico. Da dove venivano le risorse? Soltanto dall'economia interna: gli scambi con l'oriente erano a senso unico, e cioè denaro che usciva dall'impero romano per acquistare oggetti preziosi dall'India e dalla Cina. Nei tempi più bui si arrivò a fondere le statue e i monumenti per ottenere il bronzo per coniare le monete con cui pagare gli stipendi dei soldati. Sappiamo addirittura che i comandi di legione avevano addirittura le loro zecche che coniavano denaro che si aggiungeva al circolante e tendeva a generare inflazione. Un po' come succede ora quando la FED decide di stampare dollari da pompare nel sistema e consentire di pagare (anche) le spese militari sempre crescenti. A livello sociale le classi dirigenti tesero a scaricare il peso della spesa militare sulle classi meno abbienti che si sentirono oppresse. Certi intellettuali si spinsero a dire che era meglio fuggire fra i barbari che restare sotto il giogo fiscale dell'Impero. L'eccessiva pressione fiscale uccise il patriottismo e alla fine ci si ridusse ad arruolare barbari per combattere e respingere altri barbari.
Dal canto loro le classi ricche americane preferiscono che si limitino le spese sociali piuttosto che aumentare le tasse ai più abbienti e sono disposte a far rischiare il fallimento allo stato pur di ottenere il loro scopo.
Ma qui i paragoni si fermano. Grazie a dio il tempo degli eserciti e delle cannoniere è finito anche se il controllo di focolai locali di guerra comporta spese spaventose che a loro volta alimentano un'industria bellica fiorente. L'impero americano inoltre non è un impero espansivo né lo è più la vecchia Europa che avrebbe ancora molto da dire se potesse integrare ancora di più le sue politiche e la sue economie mentre la Cina, monolitica e autocratica, potenzialmente forte di dieci milioni di soldati potrebbe in teoria dominare il mondo. Ma non ci pensa nemmeno. Tutte le economie dipendono da tutte e sono alla continua ricerca di un equilibrio difficilissimo. C'è che pensa che se l'impero romano avesse trovato il modo di resistere ancora cinquant'anni avrebbe potuto bypassare il medioevo. Ipotesi audace quanto affascinante e comunque impossibile da verificare.

L'attuale Impero d'Occidente vive di sicuro un momento critico ma ha le risorse, i cervelli e tecnologie per superarlo. Parafrasando una risposta che Hitler avrebbe dato a chi gli aveva detto di non sottovalutare la forza del papa e del Vaticano si potrebbe dire: "Quante divisioni corazzate hanno "Standard and Poor?"

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