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REPORTAGE: a Teheran il regime teme le donne

Giovani "mal velate" e ben vestite si incontrano ormai ovunque nella capitale: una sfida strisciante all'islam degli ayatollah. Arresti tra i dissidenti in carcere studente e femministe. Sentenza confermata: accecò una ragazza, sarà accecato

REPORTAGE: a Teheran  
il regime teme le donne

Teheran - Le incontri dappertutto. Sull'autobus, alla guida di una macchina, a passeggio per strada o nei giardini, nei negozi e nei ristoranti, negli uffici e all'università. Portano foulard e veli colorati, da cui spuntano ricci, frange e ciocche di capelli, indossano spolverini e trequarti ben tagliati che ne esaltano il fisico sottile, calzano stivali e stivaletti, scarpe da ginnastica alla moda. Le unghie hanno smalti leggeri, il trucco sul volto è discreto, e c'è chi ostenta sul naso un quadratino di garza incerottata, segno di una chirurgia estetica ancora fresca…

Le trovi da sole o in compagnia, di un'amica, di un amico, di un fidanzato con cui si tengono per mano. Sono le bad hejabi, ovvero le "mal velate" rispetto al severo e punitivo dress code vigente che le vorrebbe avvolte nel maqna'eh, uno scialle-mantella con sotto una specie di grembiule e pantaloni, o nei neri chador, e se non sono maggioranza di certo sono una cospicua minoranza. Giovane, soprattutto, in un Paese dove il 70 per cento degli abitanti è sotto i trent'anni, metà del corpo elettorale, quasi 30 milioni, è fra i quindici e i ventotto e oltre il 60 per cento degli studenti è femmina. I tre quarti degli iraniani che festeggiano in questi giorni il trentennale della fuga vergognosa dello scià e del trionfale ritorno di Khomeini non erano ancora nati quando la Repubblica islamica venne proclamata e a un quarto di secolo e passa di distanza chi governa non può nascondersi il fatto che la Rivoluzione, intanto, è diventata donna…

È un paradosso, ma l'Iran ai paradossi è abituato. Parla una lingua indoeuropea nel bel mezzo di un Medio Oriente arabo, è considerato una nazione omogenea, ma per metà è fatto di minoranze: azeri, kurdi, turkmeni, gilachi, baluci. Ha conservato alcune delle più stupefacenti architetture islamiche del mondo, così come una tradizione di artigianato raffinato, metalli e tappeti, nonché una sofisticata cultura urbana, e ha una capitale fatta di brutto cemento, pessimo traffico, superinquinamento. La sua eredità poetica, da Ferdosi a Hafez a Kayyam, popolarissima e incentrata sulle gioie della vita, la bellezza e il vino, i fiori e l'amore, convive con una religione sciita dove predominano le idee di martirio, tradimento, persecuzione. Per secoli impero e/o monarchia, è adesso una repubblica islamica dove il potere religioso è legge, ma alle preghiere del venerdì attende appena il 2 per cento della popolazione.

Se ai paradossi aggiungi le semplificazioni, la disinformazione colpevole, l'ignoranza pura e semplice, il quadro si fa ancora più complicato. Per esempio, l'idea di un Iran etnicamente minoritario e religiosamente sciita che diventi guida di un mondo arabo maggioritario e sunnita. Per esempio, l'idea di un Iran antisemita per un Paese che ospita la più numerosa componente ebraica del Medio Oriente, eccezion fatta per Israele, 30mila ebrei circa, e la vede rappresentata in parlamento. Per esempio, l'identificazione fra talebani, qaidisti e khomeinisti, quando l'Iran è stata politicamente la più ferma, fra le nazioni arabe, nel condannare gli attentati dell'11 settembre, nonché a livello popolare la più emotivamente vicina alle vittime, e ha dato un contributo significativo nel fare accettare alla Alleanza del Nord afghana il successivo processo di democratizzazione. È solo alla luce del combinato disposto di paradosso e pregiudizio che può essere letto il caso di Shirin Ebadi: avvocatessa iraniana e premio Nobel per la Pace, al momento di pubblicare la propria autobiografia in inglese scoprì che l'embargo degli Stati Uniti nei confronti del suo Paese riguardava anche la produzione intellettuale e quindi ciò che le era proibito di far sapere a Teheran, valeva anche per Washington… Il bando venne poi tolto, grazie a un'azione legale della stessa Ebadi, ma resta emblematico di quanto detto finora. Dimenticavo: c'è una scritta sul frontone d'ingresso del palazzo delle Nazioni Unite a New York. Recita così: «Tutti gli uomini fanno parte di un unico corpo / Perché furono creati da un'unica essenza. Quando il fato affligge uno degli arti / gli altri non possono non soffrire / Tu che non provi pena per la sofferenza altrui / non meriti di essere definito un essere umano». È presa dal Golestan, Il giardino delle rose, del poeta iraniano Hafez.

Un viaggio in Iran è anche questo, uno slalom fra paradossi e pregiudizi nel tentativo di capire meglio e più a fondo. Torniamo da dove siamo partiti. No ha tutti i torti Shirin Ebadi quando nota che «alla fine, la rivoluzione iraniana ha prodotto la propria opposizione e, non in ultimo, una nazione di donne educate, consapevoli, che si battono per i loro diritti. Deve essere loro data la possibilità di combattere le loro battaglie, di trasformare il loro Paese senza interruzioni». A trent'anni dalla rivoluzione, le giovani iraniane hanno rotto definitivamente con l'idea religiosa e patriarcale che il loro ruolo fosse esclusivamente in famiglia. La mobilità sociale ascendente, l'ingresso nel mercato del lavoro, un sempre più alto grado di istruzione (il maggior numero di laureati è di sesso femminile) hanno di fatto trasformato, nonostante l'influenza dello Stato e della religione, la società e la loro vita. I fortissimi elementi discriminatori che sono ancora presenti nel campo del diritto pubblico e privato (in pratica, la donna vale la metà dell'uomo, come testimone di un processo, come erede in una causa, come soggetto di divorzio, come vittima in un risarcimento per maltrattamenti… ) si accompagnano insomma a una pervasività trasversale nella quale il velo tenta di ristabilire simbolicamente la separazione tra i sessi che caratterizza l'ordine islamico.

Se a ciò si aggiunge il fatto che a ogni elezione il corpo elettorale ringiovanisce e smonta qualche pezzetto di Repubblica islamica, si capisce come l'intero Paese sia un laboratorio in continua trasformazione. Fra il '97 e il 2005 ci fu l'illusione riformista di Khatami, a cui ha fatto seguito l'esperimento laico-radicale di Ahmadinejad. Pur nella loro assoluta diversità, entrambe le scelte erano una contestazione all'autorità religiosa per eccellenza, il potere del Valayat e faqih (Governo del giureconsulto) ovvero il leader supremo voluto a suo tempo da Khomeini, vera e propria rivoluzione contro la tradizione, e dopo la sua morte impersonato da Khamenei. Il forte astensionismo provocato dalle delusione per il fallimento politico di Khatami, fu una delle componenti del successo di Ahmadinejad, a cui si aggiunse però il suo essere il primo candidato non religioso e il suo fare parte di una «generazione del fronte» fautrice di un «khomeinismo senza clero», contraria cioè al ruolo politico dei mullah.

Anche Ahmadinejad, stando ai sondaggi e alle voci, esce sconfitto da questa contrapposizione: c'è una crisi economica che non ha saputo o potuto fronteggiare, una moralizzazione della vita pubblica che non ha ottenuto risultati reali, una sovraeccitazione ideologica che non sta giovando agli interessi nazionali. Alle presidenziali del prossimo giugno, si fa sempre più insistente l'ipotesi di una nuova candidatura Khatami e, se così fosse, probabilmente sarà lui il futuro presidente. La società iraniana ha capito che non votare non paga, l'ipotesi radical-movimentista è minoritaria in un corpo sociale che cerca una propria via alla modernizzazione e l'unico modo di procedere sembra essere quello di riformare con cautela. Velayat e faqih permettendo, naturalmente, perché nel paradosso iraniano c'è anche una repubblica a sovranità popolare, di cui però il leader supremo può fare a meno visto che governa per conto di Dio.


(2. Continua)

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