Il riavvicinamento Fini-Berlusconi ridimensiona le mire del Carroccio

RomaDel domani non v’è certezza. Figuriamoci se è possibile conoscere con esattezza mosse e scenari futuri, anche nei paraggi della presidenza della Camera. Di certo, però, è Gianfranco Fini, più che Umberto Bossi, l’alleato oggi più vicino a Silvio Berlusconi. Quantomeno è rappresentata da lui la sponda più utile per uscire indenni dall’impasse del caso Giulio Tremonti. Insomma, l’arma in più del Cavaliere per sedare mugugni e piagnistei interni, che rischiano di far saltare il banco nel Pdl. E non solo.
Potrà apparire paradossale, se ci si sofferma ai botta e risposta tra i due, quelli che hanno dato linfa negli ultimi mesi a infiniti retroscena, alimentando la convinzione che fossero davvero arrivati ai ferri corti. Ma tant’è. E se in parte è stato così, è anche vero che dal pranzo chiarificatore alla Camilluccia, nella residenza neutrale di Gianni Letta, gli inquilini di Palazzo Chigi e Montecitorio si sono riavvicinati parecchio. «Viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda», assicurano da settimane a via dell’Umiltà.
Comunque sia, dinanzi alla richiesta dei galloni di vicepresidente del Consiglio, avanzata dal ministro dell’Economia per legittimare il suo ruolo e far digerire meglio i «no» ai colleghi di governo che non lo reggono più, Fini è stato ed è tuttora molto chiaro. «Non è un fatto personale», sottolinea ai suoi, per mettere innanzitutto da parte il sospetto che ci sia dietro una riedizione del braccio di ferro del 2004, quando Tremonti fu accompagnato alla porta pure dall’ex leader di An. Il punto infatti è politico: nessuno mette in discussione il titolare di Via XX Settembre, ma è necessario trovare un «equilibrio» tra rigore e sviluppo, due «paletti fondamentali» che il partito intero deve fissare. Insomma, spiega un parlamentare un tempo di via della Scrofa, «ora tutti i nodi sono venuti al pettine e si è realizzato quanto previsto da Fini». Criticato «senza motivo», quando chiedeva «maggiore collegialità nelle scelte» per «rafforzare il partito», anche sulle decisioni che fanno rima con risorse e investimenti. Senza contare «l’allarme sulla “golden share” consegnata alla Lega», lanciato più volte in pubblico, «oggi più che mai attuale».
Ecco perché l’appoggio di Fini, convinto che non ci sia «alcuna necessità» di nominare un vicepremier, anche perché la mossa potrebbe venire letta come una «forzatura ulteriore», da parte degli elettori Pdl, mette Berlusconi al riparo pure da scossoni interni di matrice aennina. Che sarebbe stata legittimata, tra le altre cose, a pretendere un proprio rappresentante come numero due del governo. Anche per questa ragione lo stop della terza carica dello Stato rafforza il Cavaliere nei confronti del Carroccio, che insiste invece nell’appoggiare tout court la linea di Tremonti. E non a caso, dal vertice di ieri ad Arcore, tra il premier e i coordinatori, viene fuori una posizione univoca del Pdl, di cui Fini è co-fondatore. Una strategia concordata tra le due anime confluite a marzo in un unico soggetto politico, che potrà tornare utile al padrone di casa nei faccia a faccia con Umberto Bossi. Pure in chiave Regionali.
Lo fa intendere anche Italo Bocchino, finiano e vicepresidente dei deputati, che rimarca: «Tremonti è un ministro del Pdl, quindi è bene che sia quel partito, con i suoi vertici, a decidere se c’è bisogno o meno di un vicepremier». Dunque, se «il parere di Bossi è autorevole e importante», è ovvio e «giusto» che «la valutazione avvenga all’interno del Pdl».

L’assist servito sabato scorso dal presidente della Camera al premier («la nomina di Tremonti equivarrebbe a un tuo commissariamento») ha sortito così i suoi effetti. E se c’è qualcuno che adesso sembra commissariato, non è certo il Cavaliere. Anche grazie a Fini.

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