Da tempo ormai, ad ogni nuovo anno scolastico, il mio primo pensiero non va ai ragazzi che ricominciano le loro fatiche. E non c’è dubbio che la parte importante della scuola sono soprattutto loro, che l’anno che sta per cominciare sarà decisivo soprattutto per loro, perché tutti sappiamo che a 9, a 12, a 17 anni un anno non ha lo stesso valore, la stessa intensità, che a 40 o a 50.
Eppure il mio primo pensiero non va a loro. Va ai loro insegnanti, ai loro fragili stipendi e ai venti (spesso gelidi) di teorie e ideologie ai quali sono stati esposti per decenni, e che ne hanno fatto una categoria piena di delusi, di scettici, di depressi e talvolta, magari inconfessatamente, anche cinici.
Chi ha alle spalle trent’anni di insegnamento le ha già sentite tutte: ha sperimentato interrogazioni e voti di gruppo, il 6 politico e la promozione obbligatoria (liberi tutti); ha dovuto temere le ripercussioni psicologiche delle bocciature o dei cattivi voti (e chi lo paga lo psicanalista, poi?); ha dovuto applicare ogni sorta di laissez-faire; ha dovuto insegnare a smontare un testo letterario anziché a leggerlo e, possibilmente, ad amarlo (così nessuno leggeva più niente); si è sorbito corsi di aggiornamento pieni di parole incomprensibili spesso pronunciate da gente che con la scuola non aveva niente a che fare; ha digerito circolari e linee di indirizzo ministeriali ciascuna delle quali si poneva in aperto contrasto con la precedente; ha visto abolire gli esami di riparazione - che erano un mezzo banale se vogliano ma efficace (in quanto basato sulla paura) di ricordare ai ragazzi che studiare si deve.
Pochi hanno avuto la forza di reagire a una mancanza di idee così pervicacemente e programmaticamente voluta da chi trae, alla fine, giovamento dall’immobilità (pensiamo ai baroni universitari, ancora perfettamente in sella).
Ora, l’ultima trovata, perché di una modesta trovata si tratta, è quella che chiede a questo provatissimo corpo insegnante di invertire la rotta: d’ora in poi si tornerà alla scuola selettiva, alle bocciature (che in realtà sono di moda già da qualche anno), a un atteggiamento esigente nei confronti di questi ragazzi viziati e maleducati. La scuola italiana, che con il suo atteggiamento negli scorsi decenni ha contribuito in modo decisivo a produrre un paio di generazioni di maleducati, adesso vuole correre ai ripari per lo meno con i loro figli. Dopo avere di fatto insegnato ai loro padri che fare i furbi paga, adesso vuole convincere i loro figli che questo non è vero. Molto difficile, anche perché, nel frattempo, fare i furbi ha pagato, e parecchio.
Cosa sono questi licei classici con sezioni che arrivano fino alla Q e alla R? Cosa sono questi istituti professionali nei quali i ragazzi, spesso provenienti da altre scuole più «nobili», vengono trattati come non più recuperabili perciò possono fumare in classe, entrare e uscire a loro piacimento, trattare gli insegnanti come pezze da piedi, tanto alla fine la promozione sarà un loro inviolabile diritto (dopo gli istituti professionali infatti c’è solo la strada)?
Bisogna perciò tornare a una scuola esigente, qualificata e anche un po’ nozionista. Il ministro Fioroni, dopo 40 anni buttati via, promette di far tornare le nozioni, ossia le conoscenze. Ma a trasmettere conoscenze chi ci sarà? Il solito, bistrattato corpo insegnante del nostro Paese, che dopo aver metabolizzato per decenni l’idea che il nozionismo è sbagliato, che dare brutti voti crea traumi e che il ragazzo non deve subire pressioni psicologiche e costrizioni (ecco perché non si studiava più L’Infinito a memoria, che è violenza, ma si giocava a smontarlo vite a vite, bullone a bullone, fino al pugno di mosche che ne restava) adesso deve rivedere tutto il suo metodo e cominciare a esigere, pretende, castigare.
Non che siano mancati in questi anni i progetti-pilota in tal senso, de iure o de facto. Io ne ho visti alcuni da vicino e ho sentito odor di cadavere. Perché insegnare non significa essere stretti o larghi di manica, duri o molli, esigenti o blandi, favorevoli o contrari alle bocciature. Non significa niente di tutto questo, e chi crede che il problema sia questo è un illuso che crea illusione intorno a sé. Insegnare significa dare la vita - la vita! - a chi ci sta davanti, spendendo per loro ogni energia. Chi insegna pensando di riservare il meglio di sé per qualcos’altro è un criminale. Solo se dai a piene mani hai il diritto di pretendere. Ma se non dai nulla, cosa pensi di poter pretendere?
Per trasmettere un patrimonio di conoscenza bisogna credere innanzitutto nella conoscenza, nel suo valore assoluto - si tratti degli integrali, di Tacito o della ricetta per il court bouillon non importa, perché è l’atteggiamento che conta, e non si trasmettono conoscenze senza insegnare l’atteggiamento giusto nei loro riguardi, un atteggiamento sereno e fiducioso, e l’atteggiamento si trasmette con l’esempio e non a parole. Ho visto un professore convincere un ragazzo a rifiutare un 30 e lode in nome di una miglior conoscenza della materia, e questo ragazzo accettare per la stima che nutriva verso quell’uomo.
Non dico che questo non possa accadere su scala più ampia. Abbiamo un gran numero di straordinari insegnanti. Gente che ha resistito alla Scuola del Dubbio e continua a credere in quello che insegna. A differenza della Francia, dove lo Stato ha distrutto la scuola (e si vede: i giovani francesi in gita all’estero sono solitamente un esempio di maleducazione), qui lo Stato non ce l’ha ancora fatta, perché qui più che in Francia la società civile ha mantenuto e trasmesso valori propri, cristiani e laici, per fortuna non mutuati dallo Stato. Esiste perciò ancora una folta schiera di persone appassionate.
Io però penso che lo Stato, anziché elargire direttive, dovrebbe restituire agli insegnanti una dignità visibile. Quando ero ragazzo le case dei professori erano luoghi pieni di dignità, si percepiva che un insegnante, senza essere ricco, era però un uomo che godeva di vera considerazione, e che la sua importanza sociale era riconosciuta ufficialmente.
Perciò, in luogo delle paternali o delle omelie che costano poco e nulla, chi dirige la baracca farebbe meglio a preoccuparsi di reperire le risorse per restituire al mestiere dell’insegnante la considerazione che merita nella società. Altrimenti come faremmo a persuadere i ragazzi che fare i furbi è sbagliato?
Luca Doninelli
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