«Rimossi perché inutili per la lotta politica»

Livio Antonielli è professore di storia all’Università Statale di Milano, a suo padre Sergio si deve l’unico romanzo (vergato da un reduce) che racconti la sofferenza dei diecimila ufficiali italiani internati in India durante la Seconda guerra mondiale.
Suo padre appena tornò in Italia scrisse di getto un romanzo sulla sua prigionia in India. Non una cosa memorialistica, un romanzo. Come mai?
«Lo scrisse di getto, lui che normalmente era molto posato e riflessivo, fu una sorta di urgenza. Scelse il romanzo, come spiega nell’introduzione, proprio per uscire dalla memorialistica, da uno schema narrativo troppo legato al singolo fatto. Voleva mostrare come la prigionia, intesa in senso assoluto, portasse l’essere umano ad una sorta di grado zero... Però leggendo si vede che i fatti da lui vissuti irrompono in continuazione...».
Ma nel privato cosa raccontava della sua prigionia in India?
«Era molto riservato. Raccontava soprattutto degli ambienti, degli animali, dei paesaggi non dei campi... E il tema degli animali indiani è poi ritornato anche in altri suoi romanzi».
Suo padre Sergio è mai tornato in India?
«No, non credo ne abbia mai avuto desiderio. Che io ricordi ha anche incontrato pochi altri reduci. Credo che nessuno volesse tornare con la memoria a quelle esperienze. Anche se non si vedono, quattro o cinque anni di prigionia in ragazzi di vent’anni possono provocare segni devastanti».
Perché crede che il destino dei prigionieri italiani in India abbia avuto molto meno spazio letterario e mediatico di altre tragedie della Seconda guerra mondiale?
«La sorte dei prigionieri è sempre un tema ambiguo.

Spesso non c’e amore per chi si è arreso e poi nel caso specifico di questi prigionieri saltava ogni possibile giudizio politico. Vennero visti come non etichettabili, non utilizzabili politicamente anche a causa delle loro divisioni interne, dei distinguo... E così vennero messi in un cantuccio».

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