La ripartenza di Silvio: l’uomo di football sogna già la rivincita

Venticinque anni alla guida del Milan gli hanno insegnato che il campionato è lungo e che a un ko segue una vittoria

La ripartenza di Silvio:   
l’uomo di football  
sogna già la rivincita

È come aver perso 3-0 il derby. Che fai protesti? Che fai ti lamenti? Che fai, t’arrendi? La classifica, ecco. Un presidente di una squadra di calcio lo sa: guarda quella. Guarda e si vede primo con pochi punti di vantaggio, ma primo; primo, a fatica, ma primo. È questa la differenza con gli altri. È una questione di prospettiva. Berlusconi lunedì pomeriggio ha fatto un sorriso: l’unico ad aver mostrato un cenno di ottimismo in un giorno di facce da funerale. Si vince, si perde. Il calcio insegna la cultura della sconfitta anche a chi ha sempre vinto tutto, come lui. Insegna che non è finita, anche quando lo sembra. Quante volte lo ripetono calciatori, allenatori e presidenti? Dicono così: vediamo alla fine. Cioè all’ultimo secondo dell’ultimo minuto di recupero dell’ultima giornata di campionato. È quello il momento, non prima. Ha perso anche il Barcellona di Guardiola, l’anno scorso. Avevano detto: finito un ciclo. Come no: quest’anno s’è preso tutto. Adesso tutti parlano del Barça dei grandissimi, imbattibile e formidabile.

La relatività del pallone assomiglia molto alle elezioni: vinci e sei un fenomeno, perdi e sei finito. Però poi si ricomincia: novanta minuti, poi altri novanta, poi altri ancora. La politica di chi la vive come il calcio è così: qui, adesso, si possono disperare candidati e portatori di voti. Loro sono come i giocatori o gli allenatori: se perdono l’occasione della vita non sanno se gli potrà ricapitare. Ma un presidente no. Un presidente può cambiare, può ricostruire, può riorganizzare. Berlusconi vive da 25 anni in quel mondo. Ha vinto e ha perso. Così ha maturato la certezza che altri non possono avere: la sconfitta non è una tragedia. Non quando puoi giocare ancora, quando puoi prenderti la rivincita, quando quel match era decisivo, ma non valeva ancora il campionato. Il suo sorriso a Bucarest è uguale a quelli di qualche sconfitta del Milan. Vedi Veltroni? Quando ha perso in Sardegna facendo la campagna elettorale per Soru, s’è presentato di fronte ai microfoni e ha mollato tutto: sconvolto a tal punto da convincersi che quella fosse la madre di tutte le batoste. È come quegli allenatori che si dimettono alla prima difficoltà, o come quei presidenti che cacciano l’allenatore al primo risultato negativo.
Berlusconi razionalizza: fermi tutti, un attimo. Sì, abbiamo perso, abbiamo perso pure male. Embè? Gli altri esultano: piazza Duomo tinta d’arancione Pisapia è uguale a quella colorata di nerazzurro di questi ultimi anni. Chi era la squadra sconfitta dall’Inter in Italia? Il Milan, certo. Ecco: Berlusconi che cosa avrebbe dovuto fare, vendere il club? Avrebbe dovuto lasciare? Avrebbe dovuto abbandonarsi alla supremazia degli avversari? No, ha rilanciato.

Persino Repubblica gliel’ha riconosciuto: «Credevamo si fosse messo di lato, almeno sulla scena calcistica, invece rieccolo, allo scoccare del venticinquesimo anno “più bello e più superbo”. Compra chiunque: Ibrahimovic che lo supplicava da tempo, Robinho che mette allegria. Poi, più avanti: Cassano, la Maddalena pentita di Milanello, Van Bommel e Emanuelson, che non si sa mai. Strada facendo ha consumato la vendetta sul traditore Leonardo, la cui figura e la cui parabola sono l’equivalente calcistico di quel che rappresenta Fini in politica: una vita insieme, poi “Che fai, mi cacci?”, ed ecco il passaggio al nemico che sulle prime sembra letale, poi sfuma nella malinconia dei proclami al vuoto. Ha ritrovato la grandeur sfacciata».
Uno così sorride anche se perde a Milano e a Napoli. La batosta elettorale è come aver visto l’Inter dominare. Ma come? Lo sanno tutti che la storia di Milano negli ultimi due decenni l’ha fatta il Milan.

Così a palazzo Marino, così alle urne: nel post Tangentopoli, è stato centrodestra. Questa volta è una parentesi, una sospensione, un’interruzione. Perché la palla gira. C’è qualcosa che non funziona: si può cambiare la rosa, si possono trovare nuovi giocatori, si può cercare l’allenatore giusto. Il campionato dura ancora due anni: Milano è come il derby. Importante, simbolico, ma non decisivo. È così: nelle squadre se c’è qualcosa che non va, si cambia.

Berlusconi ha licenziato Zaccheroni, Tabarez e Terim, ha lasciato andare Ancelotti che aveva vinto tutto, ma a un certo punto non funzionava più. Ha pescato Allegri e ha vinto. Per questo adesso non s’arrende, per questo pensa che è tutt’altro che finita.

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