La riscoperta dell’italianità

Le preannunciate nozze italo-spagnole tra la controllante di Autostrade e l’omologa Abertis hanno fatto un passo in avanti con l’approvazione dei rispettivi consigli di amministrazione mentre nel mondo politico e in quello economico polemiche e contraddizioni si rincorrono incessantemente. Molti esponenti del centrosinistra hanno, in questa occasione, riscoperto il concetto di italianità e degli interessi generali del Paese come valori importanti anche in un’economia di mercato. Due concetti per i quali, spesso, ci siamo battuti in opprimente solitudine mentre grandi organi d’informazione, ci spiegavano che il mercato e le privatizzazioni erano due facce inscindibili della stessa medaglia.
Come si sa, questo non è vero, o almeno non è totalmente vero perché il mercato è neutrale rispetto alla natura della proprietà delle aziende che operano in esso, a condizione, naturalmente, che le sue regole e i trattati europei vengano rispettati. D’altronde l’Europa ha centinaia di grandi aziende multinazionali che hanno nella propria compagine una presenza pubblica, dalla francese Electricité de France alla tedesca Volkswagen per finire alla nostra Eni. Siamo tra i pochi rimasti a sostenere che il pubblico può e deve ancora giocare un ruolo nella nostra economia, in particolare nei settori a tecnologia avanzata e nelle reti infrastrutturali. Nei primi il suo ruolo è essenziale per rilanciare ricerca e innovazione, settori che richiedono grandi investimenti a redditività differita necessari per garantire quella crescita della produttività del lavoro il cui declino è coinciso proprio con la liquidazione delle imprese a partecipazione statale messa in piedi da governi del centrosinistra. Nelle reti infrastrutturali il ruolo pubblico è invece strettamente legato a quel profilo di monopolio naturale, come nel caso degli assi autostradali o di altri beni essenziali. Ecco perché riteniamo che fu un errore procedere a quelle massicce privatizzazioni nella seconda metà degli anni Novanta senza un disegno generale per il Paese né sul piano industriale, né su quello finanziario, e men che meno a difesa degli interessi nazionali. Quando fu privatizzata la Società Autostrade, essa fu venduta per il 30 per cento alla società Schema 28, controllata dalla famiglia Benetton, e per il restante 53 per cento al mercato che già controllava il 17%, a testimonianza di una strategia di ritiro totale dello Stato dall’economia reale e dalle stesse reti infrastrutturali. Nella concessione che regola i rapporti tra Stato e Autostrade Spa c’è, però, l’obbligo della comunicazione di ogni variazione superiore al 2 per cento nell’azionariato di quest’ultima. E questo non ci risulta sia stato fatto. Ma c’è di più. La Società «Autostrade SpA» quotata in Borsa ha preso su di sé l’onere delle garanzie previste dalla convenzione quando fu scorporata «Autostrade per l’Italia» che divenne così la società operativa dei tronchi autostradali. A questo punto se la società controllante di «Autostrade per l’Italia» scompare perché con la fusione viene incorporata nella spagnola Abertis, lo Stato che da essa è garantito potrebbe bloccare questa operazione.
A prescindere dalla polemica sull’eventuale mancato rispetto degli obblighi di concessione che solo oggi l’Anas sembra scoprire, la negata autorizzazione dovrebbe trasformarsi in una sorta di prelazione da parte dello Stato delle quote controllate dalla famiglia Benetton. Diversamente, vi sarebbe allora sì una violazione delle regole del mercato, perché lo Stato imporrebbe a un azionista privato la propria politica finanziaria e industriale. Non capiamo, invece, cosa significhi l’apertura a un nuovo azionista italiano come è stato detto nei giorni scorsi se questi non dovesse essere lo Stato che potrebbe rilevare, invece, una quota delle azioni possedute dai Benetton attraverso la Cassa Depositi e Prestiti o altre società pubbliche. Ciò che non si può fare è continuare a invocare l’italianità e gli interessi del Paese senza nulla fare, né si può, lo ripetiamo, immaginare di imporre ad aziende private, anche se concessionarie, precise politiche finanziarie e industriali. È tempo che Romano Prodi e le forze del centrosinistra dicano la loro e si comportino di conseguenza, tanto più che loro fu la responsabilità della vendita di quella che appare oggi un monopolio naturale e che già lo era ieri. Una parziale ripubblicizzazione così come descritta non viola né le regole del mercato (l’Europa non c’entra niente e chi la invoca lo fa strumentalmente) e men che meno gli interessi del Paese e quelli dello stesso azionista privato.

Al contrario essa sarebbe un operoso, anche se tardivo, ripensamento di chi rischia, sul terreno dell’italianità e degli interessi nazionali, di predicare bene e razzolare male. È questo, dunque, il tempo della politica e non certamente quello del consiglio di amministrazione dell’Anas.

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