Ristoranti asiatici, la paura non fa calare la clientela

I ristoranti cinesi di Milano non sembrano accusare il colpo dopo l’ultimo scandalo del latte cinese contaminato. A sentire i titolari di alcuni ristoranti del capoluogo lombardo, negli ultimi giorni la clientela è rimasta la stessa. Del resto loro assicurano di usare solo prodotti italiani, a parte i derivati della soia e del riso o alcuni prodotti tipici come bambù, sakè e birra cinese. «Per noi non c’è stato nessun calo» dice Giovanna Wang, titolare del Kota Radja di piazzale Baracca, un esercizio che ogni giorno fattura tra i 1.500 e i 2.000 euro, con un leggero incremento nel fine settimana.
Il 31 dicembre scorso in città si contavano 100 ristoranti e 120 bar gestiti da titolare nato in Cina. A questi poi vanno aggiunti 19 gastronomie, 8 minimarket e 3 macellerie. In tutto 250 attività legate alla ristorazione, pari al 13,7% del totale, che vendono al pubblico cibo e bevande tipici cinesi. Del resto il settore della ristorazione è, insieme al comparto commerciale, quello che più vede impegnati gli immigrati cinesi a Milano. Imboccando via Paolo Sarpi questi dati si fanno realtà. Del resto questo è il cuore della Chinatown milanese, quello dove nell’aprile del 2007 andò in scena la rivolta dei commercianti dagli occhi a mandorla.

In questa via si concentra il 3,7% delle ditte cinesi preceduta solo da via Bramante (4,6%) nella stessa area. A livello di zone, a primeggiare, invece, tra le nove aree in cui è suddiviso il territorio milanese, è la zona Fiera-Gallaratese, Quarto Oggiaro dove hanno sede il 38% delle imprese cinesi.

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