Prima rivolta di operaie cinesi: «Lavoriamo 18 ore al giorno»

Per la prima volta, dal buio e dal silenzio del miracolo cinese arrivano delle voci. Sono le voci di due donne che raccontano su quanta brutalità sia costruito il miracolo dell’economia sommersa della comunità cinese a Milano. Due donne hanno denunciato i loro datori di lavoro: una coppia di connazionali, e il figlio dei due. Le condizioni in cui erano tenute a lavorare e a a vivere hanno fatto trasalire anche il procuratore aggiunto Nicola Cerrato, capo del pool che si occupa di lavoro. Quando i carabinieri della compagnia Monforte sono andati all’indirizzo indicato dalle donne - in via Pascarella 11, a Quarto Oggiaro - il laboratorio-prigione era già stato smantellato. Ma nello stesso palazzo gli uomini dell’Arma sono riusciti a fare irruzione in un altro laboratorio, gestito dalla stessa famiglia, dove hanno trovato al lavoro un gruppo di operai. E, sempre all’11 di via Pascarella, sono stati individuati altri due laboratori e gli appartamenti dove gli operai potevano trascorrere le poche ore di riposo notturno.
Gli operai erano tutti clandestini: comprese le due donne che lo stesso giorno, facendosi coraggio l’un l’altra, hanno deciso di sporgere denuncia. Avevano trovato il «contatto» con i loro sfruttatori su un volantino distribuito nel microcosmo di via Paolo Sarpi. Lavoravano dalle 9 all’una di notte, secondo il racconto della prima; addirittura dalle 9 alle 3 del mattino, secondo l’altra. Paga a cottimo: due o tre euro per cucire un abito, sessanta centesimi per un pantalone. Alla fine del mese, ottocento euro pagati in contanti, senza formalità.
Ieri, in via Paolo Sarpi, dopo che dalla Procura arriva la notizia delle due denunce, l’agenzia Ansa raccoglie reazioni secondo cui tutto questo sarebbe normale, farebbe anzi parte della cultura cinese, e a chiedere di non avere i contributi pagati sarebbero gli stessi lavoratori. Sarà. Ma le denunce delle due donne sono precise e concordanti, ed è difficile pensare che si tratti di casi estremi o isolati. Dice una delle operaie: «Lavoravamo dalle nove di mattina all’una di notte, con pause di 10 minuti ogni pasto e guadagnavamo 800 euro al mese». Nel laboratorio il caldo, soprattutto a luglio, era diventato insopportabile. «Mi mancava il fiato - ha aggiunto - perché soffro di cuore. Faceva caldissimo là dentro, era una vita inaccettabile». E l’altra: «Io lavoravo in quel laboratorio anche fino alle 3 di notte, dalle 9. Dormivamo là dentro e avevamo solo due giorni liberi al mese. Il proprietario si vedeva solo a cena, mentre la moglie portava dentro la merce da cucire».
Adesso i tre datori di lavoro sono chissà dove, a gestire un altro sottoscala affollato di macchinari e di clandestine. Non sono ricercati dai carabinieri nè dalla Procura, per il semplice motivo che i reati contestati loro sono reati di poco conto: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, occupazione di manodopera clandestina. Il reato di sfruttamento nella legge non c’è, e per avere fatto lavorare per mesi le operaie in condizioni da fame i due coniugi rischiano al più qualche grana con l’Inps.
Poche speranze, insomma, che l’indagine coordinata dal pm Nicola Balice approdi a qualcosa di concreto.

Ma resta il segnale positivo, la novità di queste due donne non giovani - una di 40, l’altra di 46 - che dall’interno di una comunità ermeticamente chiusa hanno trovato chissà dove il coraggio di sporgere denuncia agli «italiani». E che adesso potranno restare in Italia, in base alla legge, grazie al permesso di soggiorno per motivi di giustizia.

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