Il rocker dai mille volti e dagli infiniti suoni

Il rocker dai mille volti e dagli infiniti suoni

Esistono e convivono mille Neil Young. Il rocker solitario («Quando lo incontrerai capirai che niente può liberarlo/ cedigli la strada, è il solitario», canta nell’antico classico The Loner), l’indiano metropolitano dei Buffalo Springfield, la cattiva coscienza di Crosby Stills Nash & Young, il leader dei Crazy Horse (come dice lui: «La terza garage band del mondo: la prima sono i Rolling Stones, la seconda un gruppo là fuori in strada che nessuno ancora conosce»), il country boy disincantato di Harvest e di mille esaltanti pagine acustiche, il rocker di Rust never Sleeps che accosta arditamente la figura di Elvis a quella di Johnny Rotten.
Ci sono anche molti altri Neil Young, pronti ad incontrarsi tutti domani sera al Teatro Arcimboldi, per l’unico concerto italiano del cantautore canadese simbolo della West Coast californiana. Arriva con uno show attesissimo; l’ultima sua apparizione quasi 5 anni fa allo Smeraldo, in mezzo l’aneurisma cerebrale che ha fatto temere per la sua vita. «Facevo il maestro di cerimonie per l’ingresso di Chrissie Hynde nella Rock and Roll Hall of Fame - ricorda Young -, ho fatto tardi e il mattino dopo ho sentito come dei pezzi di vetro rotto negli occhi. Sono andato da un neurologo cinese che mi ha detto: “La buona notizia è che sei qui, la brutta che hai un’aneurisma al cervello. Vivrai sino a cent’anni ma dobbiamo toglierlo”». In attesa dell’operazione Young scrive canzoni e poi pubblica un album sofferto e intriso di dolore come Prairie Wind, con brani come il pezzo che dà il titolo al disco, atto d’amore per il padre scomparso da poco, e la preghiera When God Made Me.
Neil comunque non è abituato a piangersi addosso; la lucida vena melanconica copre i suoi drammi personali e interiori e sostiene i suoi inni di battaglia con quel tono disinvolto in cui mette d’accordo il rock più duro e il country, con la voce che è (e deve essere) più rantolo che bel canto. Molti aspettano il rocker dalla affilata chitarra elettrica che per il suo sound in classici come Southern Man, Alabama, Like a Hurricane e molti altri, oltre che per le collaborazioni coi Pearl Jam è stato definito «papà del grunge»; altri aspettano l’aedo folk in camicia di flanella e stivaloni che volteggia tra After the Goldrush, Harvest e Harvest Moon; altri ancora, omelie come Down By the River, senza parlare delle «pazzie» rockabilly ed elettroniche. Nel suo carniere anche capolavori disperati come Tonight’s the Night, disco difficile in memoria di un amico («inciso con l’aiuto della tequila, l’elemento aggiuntivo della band, e le frittelle di marijuana e miele fritte alla piastra»), che solo nel 1987, ovvero dodici anni dopo, Rolling Stone inserisce nell’elenco degli album più belli del ventennio.
Sembra contraddittorio ma lui esprime, senza perdere intensità e profondità, questi mille volti apparentemente antitetici, e li esprime ancora con una incessante attività dal vivo e discografica. Alla fine dello scorso anno è uscito l’aggressivo cd Chrome Dreams e, prima e dopo, una serie di energetici e ruvidi album dal vivo dei tempi d’oro riportati alla luce dai suoi archivi, senza contare il bel documentario di Jonathan Demme Heart of Gold (dal titolo di uno dei suoi brani celebri tratti da Harvest). Young domani è pronto a scuoterci e a cullarci con il suo sogno americano che non fa sconti.

Partirà sua moglie Pegi, fresca debuttante con il primo disco. Poi arriverà Neil, voce e chitarra acustica e, nell’ultima parte, la cavalcata elettrica con i Crazy Horse. Una scaletta in viaggio tra ricordi e buone vibrazioni.

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