"Un romanzo è una partita di cricket: sembra immobile ma è un dramma"

Il Nobel di Zanzibar Abdulrazak Gurnah parla della nuova opera "Furto": "Narro vite rubate, ma non finite"

"Un romanzo è una partita di cricket: sembra immobile ma è un dramma"

Prima che l'Accademia di Svezia pronunciasse il suo nome, quel 7 ottobre 2021, come vincitore del Nobel per la Letteratura, Abdulrazak Gurnah era quasi ignoto in Italia. E poi abbiamo iniziato a conoscere questo scrittore, nato a Zanzibar nel 1948, emigrato in Gran Bretagna a diciotto anni con il fratello, una vita da docente di Letteratura inglese e postcoloniale all'Università del Kent, appartato in quel di Canterbury, lontano dal luccichio e dal fragore di Londra. Un po' come i suoi romanzi, che cominciano lenti e poi ci trascinano fra amori, tradimenti, grande Storia (quella della colonizzazione britannica, poi dell'indipendenza della sua isola, diventata parte della Tanzania, fino all'invasione turistica di oggi), violenze, abusi, sradicamenti, fughe, vendette... Succede in Paradiso e Sulla riva del mare (entrambi candidati al Booker Prize) e nel nuovo Furto, appena edito dalla Nave di Teseo, che ne sta pubblicando l'intera opera e in questi giorni lo ha portato in Italia per la Milanesiana. I protagonisti sono tre ragazzi, Karim, Fauzia e Badar, che diventano adulti nella Zanzibar degli anni fra i Novanta e i Duemila.

Abdulrazak Gurnah, quando ha iniziato a scrivere Furto, prima o dopo il Nobel?

«Prima. Diciamo un quindici per cento. Poi, dopo il premio, sono stato preso in così tante attività... Così ho lasciato lì il romanzo, fino a che ho avuto il tempo di occuparmi solo di quello».

Che cos'è il Furto del titolo, anche se forse dovremmo parlare di furti?

«Al centro del romanzo c'è effettivamente un furto, o meglio qualcuno, Badar, accusato di essere un ladro. Poi, metaforicamente, c'è il furto della vita di questo ragazzo, per una serie di circostanze e di accuse che non dipendono da lui; c'è la costruzione dell'hotel in cui lavora, anch'esso rubato; c'è la rottura delle famiglie...».

Il furto delle vite è un tema centrale anche in altri suoi romanzi, per esempio le vite rubate dai colonizzatori o dallo Stato violento?

«Sono vite rubate, in un certo senso, e sono anche traumatizzate. Però questa non è la fine della storia, per lo meno, non lo è nel mio romanzo, perché le persone ritrovano la loro strada. Avvengono moltissime ingiustizie al mondo, piccole e grandi, e non tutti protestano».

Per questo nei suoi romanzi, più che eroi, ci sono persone comuni?

«Come lei e me... E potremmo anche chiamarli eroi, ma sono persone che fanno ciò che tocca a molti, ovvero trovarsi davanti a degli ostacoli e cercare un modo di uscirne: delusioni, sgarbi, perdite, distacchi dalla propria famiglia o dal proprio Paese. Il mio ottimismo dice che l'empatia, la comprensione e un po' di fortuna permettono alle persone di ritrovare la propria strada. A volte».

Badar dice: «Ho imparato a sopportare».

«Per me è qualcosa di molto importante: non essere sopraffatto, imparare i modi, grandi e piccoli, per sopportare e non essere disprezzati. Se una persona non protesta o non grida, non significa che non possieda in sé alcuna forza, anzi: serve una grande forza per resistere e sopportare. La sopportazione è una qualità magnifica».

E qui arriviamo a uno dei suoi temi centrali: il potere e i suoi abusi.

«Tutte le forme di potere sono espressione di una tentazione nei confronti dell'ingiustizia. Succede anche ai padri che amano i figli... L'aspetto importante, per me, è come tutto questo influenzi l'individuo e il suo rapporto con gli altri, le complicazioni a livello emotivo, il dolore che può provocare».

I suoi protagonisti erano sempre dei rifugiati. Qui no, eppure il «vivere in due mondi» è centrale?

«È vero, questa volta resto a casa. Non si parte. Ma casa non è qualcosa di stabile e sicuro: c'è comunque il senso di essere stranieri in un luogo, un senso di straniamento. Non per forza umiliante, ma c'è. Oppure la vita prende una direzione che non è decisa da te e diventa alienante. E perciò devi trovare la tua strada nel mondo».

È anche la sua esperienza?

«È la mia esperienza e quella di molti altri. Io mi sono trasferito in Inghilterra perché volevo studiare e farmi una vita altrove. Per realizzarmi, senza capire i costi di tutto ciò».

Come ha iniziato a scrivere?

«Come tanti, perché qualcosa mi turbava, per conforto, per capire quello che facevo... All'inizio non pensavo che qualcuno mi avrebbe letto. Fino a che, a un certo punto, sono emersi una storia, un soggetto: capire, da straniero, come vivere in un nuovo luogo e, allo stesso tempo, non smettere di vivere nel luogo che ti sei lasciato alle spalle».

Come si fa?

«Semplicemente non puoi smettere, non puoi liberartene. Ci sono cose che ricordi perché vuoi, ma ce ne sono altre che vengono a galla comunque, e non puoi farci nulla: sono le nostre memorie».

Quali sono per lei?

«Tutto. Le persone, la famiglia, le occasioni, un modo di comprendere e stare con gli altri, di vivere in un posto nel suo complesso. A volte sono memorie esasperanti, a volte noiose, altre felici, altre ancora terribili, e non vorresti ricordarle».

L'inglese non è la sua lingua madre. Come ha trovato il suo stile, così pulito, diverso da quello di altri autori africani, come Wole Soyinka?

«Non credo che il mio inglese sia peculiare, come sostengono alcuni. Certo, il luogo in cui nasci porta sempre qualcosa di importante a ciò che scrivi e ha sempre un impatto sulla lingua che usi; ma credo che ogni scrittore combatta per riuscire a scrivere in modo da esprimere il più possibile ciò che ha nella testa. Ed è da questo sforzo che, se sei fortunato, scaturisce una originalità: ecco, questo è il mio stile».

Ha dei modelli?

«No. Leggo tantissimo ma, se uno scrittore mi piace, non voglio scrivere come lui. E, se c'è una serenità in ciò che scrivo, è proprio per via di questa lotta: voglio che questa serenità ci sia. Non arriva da sola».

È un segno di qualcosa?

«È il segno di un desiderio di serenità, anche se a volte devi scrivere di cose pessime... Ma io voglio che la lingua sia qualcosa di piacevole, che ampli il senso di ciò che sta accadendo».

È un appassionato di cricket. Ha un legame con la letteratura?

«No. Lo amo e basta. Per il suo ritmo, il fatto che una partita duri anche cinque giorni, il suo sviluppo lento, l'intelligenza del gioco. Amo quella tensione che cresce lentamente. E poi è un gioco pieno di statistiche e di dramma».

Sembra proprio un suo romanzo.

«Dice? Beh, il cricket è così: sembra fermo, ma è pieno di drammaticità».

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