Cultura e Spettacoli

Romy Schneider: così la vita strapazzò Sissi

Gremese porta in libreria un volume che ripercorre la triste vita di una delle più celebri attrici, vista da una sua collega, Hildegard Knef, che fu testimone diretta delle sue sofferenze (tante) e delle gioie (poche)

Sissi, al cinema, ci era quasi nata. Sissi, in 44 anni, aveva visto tutto. Gli esordi sul set. Una liaison con il sex symbol maschile degli anni Sessanta, Alain Delon. Due matrimoni falliti. Un figlio morto accidentalmente. La fama e la depressione. E la fine che l'aveva sorpresa, china sul suo scrittoio, mentre stava buttando giù una lettera a un'amica. Non riusciva a dormire, Sissi, quella sera. E aveva preso qualche sonnifero. Forse eccessivo per il suo fisico, ancora giovanissimo, ma minato dai postumi di un tumore al rene, dal quale era guarita, ma con fatica. Sissi era Romy Schneider. E Romy Schneider era Sissi. Perché lei, austriaca da madre tedesca, con doppio passaporto e due genitori attori, sul set ci si era trovata già da bambina. E proprio la mamma le aveva ritagliato quel ruolo che l'avrebbe resa celebre e, a un tempo, lei avrebbe poi profondamente odiato. Sissi. Appunto.
Aveva 17 anni soltanto quando la impersonò per la prima volta. Era il '55. Anche se dodici mesi prima aveva interpretato una giovane regina Vittoria. Erano i primi passi in un mondo che le avrebbe donato ricchezza e celebrità. Perché lei, Romy Schneider, avrebbe recitato per i registi più noti e raffinati. Orson Welles nel «Processo». Luchino Visconti nel «Ludwig» e in «Boccaccio '70». Otto Preminger per «Il cardinale». Alberto Bevilacqua nella «Califfa». Costa Gavras per «Chiaro di donna». Tavernier per «La morte in diretta». Risi in «Fantasma d'amore». I 44 anni in chiaroscuro di Romy Schneider oggi rivivono nella testimonianza vibrante di un'amica, quella Hildegard Knef che fu attrice lei stessa, ma nota a pubblici circoscritti, quello tedesco e quello americano, di una Broadway che la vide protagonista di molti musical. Il risultato è un libro, «Romy Schneider» (Gremese editore, pp. 157, euro 12) che ripercorre quella vita di sofferenze, tante, e gioie, poche. E le racconta dall'occhio di chi le ha viste da vicino.
Soddisfazioni in celluloide. E angoscia. Sotto forma di malattia. Quel maledetto tumore al rene che la costrinse a un'operazione da cui uscì pagando il prezzo di rinunce, debolezze e una cicatrice che ne attraversò la schiena. Angoscia fatta di ricatti, quelli che Daniel Biasini le imponeva per spillarle soldi con la promessa di farle vedere la figlia. Sarah. Che oggi è attrice lei stessa. Angoscia fatta di dolore quando il figlio avuto dal regista Harry Meyen, morì tragicamente e accidentalmente per aver messo un piede in fallo nel tentativo di entrare in casa dalla finestra, essendo senza chiavi davanti alla porta chiusa. Precipitò sulle lance appuntite dell'inferriata sottostante e non ci fu nulla da fare. La protesse Alain Delon che non l'aveva mai sposata, ma l'aveva amata davvero. Come quel Laurent Petin, cui fu legata negli ultimi anni della sua breve vita. Poi il finale di partita, fatto di alcol proibito, antidepressivi, pillole, sonniferi e stimolanti. Nel rutilante avvicendarsi dal caos delle luci di una ribalta ai silenzi immoti di casa. Fino all'ultima lettera. Quella su cui chinerà la testa, senza mai più alzarla. «La sua esistenza è una maratona con il traguardo sconosciuto» scrisse l'amica-autrice con la mano tremante, che a ogni pagina tradisce punte di affetto.

E un dramma senza età.

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