Cultura e Spettacoli

Dalla Russia alla foce del Nilo: viaggi di un artista-turista

Raccolti in un Classico della Bompiani i "reportage" del grande storico della pittura. "La sua Italia vive nella luce di un’eterna primavera, come in un quadro di Morandi"

Dalla Russia alla foce del Nilo: viaggi di un artista-turista

Con Cesare Brandi, come e più che con Longhi, siamo al dilemma: critico o scrittore? O scrittore attraverso la critica? Al punto in cui siamo giunti, con questa silloge di scritti letterari e di viaggio, dovremmo concludere che Cesare Brandi è stato soprattutto uno scrittore. Importanti, ma non durevoli, i suoi libri di estetica che prendono come modello i Dialoghi di Platone. Necessari i suoi saggi sulla pittura del Trecento e del Quattrocento senese, in particolare su Pietro Lorenzetti e Giovanni di Paolo. Illuminante il suo Spazio italiano, ambiente fiammingo.

Fondamentali le sue teorie sul restauro e le sue invettive per la difesa dei centri storici e del paesaggio, in anticipo e in parallelo con l’impegno di Italia nostra. Con il riferimento a questa associazione appare inevitabile il ricordo di Giorgio Bassani, ma il suo nome non tornerebbe alla nostra mente se non per evocare una grande opera letteraria. A distanza possiamo dire lo stesso di Brandi, le cui pagine di viaggio sono, letteralmente, «incanti» attraverso una parola che rievoca spazi, atmosfere, profumi, trasferendo in letteratura informazioni e memorie storiche.

In tal modo la saggistica perde la sua algida e scostante distanza intellettuale per avvicinarsi alle aree più intime e segrete della nostra sensibilità, al cuore. Con l’emozione e l’entusiasmo di essere italiani, che fa dello storico, critico e scrittore Cesare Brandi uno spirito risorgimentale, spesso con il rimpianto di porzioni d’Italia perdute. Perdute alla bellezza. I suoi viaggi in Italia trasferiscono alla nostra lettura non nozioni ma emozioni. Cesare Brandi è felice per le strade d’Italia, di città in città, di civiltà in civiltà. E anche, e soprattutto, nei percorsi minori, laterali. Dovendo restituire ora l’Italia che egli ha visto sembrano più efficaci le fotografie in bianco e nero che accompagnano i suoi libri di viaggi, come quelli di Berenson. Nell’uno e nell’altro caso esse, tratte dagli archivi Alinari, mostrano un’Italia che non c’è più. E monumenti e paesaggi restaurati, alterati, sfigurati. Le parole di Brandi, miracolosamente, ci riportano a quella condizione in cui c’è più verità nella fotografia che nella manomessa realtà, ovunque mortificata: nei centri storici con gli orridi manufatti del cosiddetto arredo urbano; nei paesaggi con le invereconde casupole e villette sorte per assecondare un turismo di rapina, o con le mostruose torri eoliche che avrebbero fatto morire Brandi di crepacuore. L’Italia di Brandi è una Italia in bianco e nero, con le strade polverose, ma sotto una luce di eterna primavera. Brandi a Ninfa, ovvero fuori del mondo: «Non esiste, non può esistere una città morta che sia più ardente, vitale di questa: non può esistere un luogo dove il tempo si sia fermato come nel Paradiso terrestre, sicché ti senti sempre in colpa a camminare su quell’erba fiorita, sciuperai qualcosa, rintuzzerai il bulbo prezioso: un angelo infine verrà, con la spada, a ricacciarti nella terra di tutti».

Qui il Brandi felice, incredulo. E poi c’è il Brandi delle invettive: «Ma le macerie di Palermo ci opprimono. Signore Iddio, illuminateli i peninsulari che hanno dato l’autonomia a Palermo e gli insulari che l’hanno voluta! Signore Iddio, non abbiate nessuna pietà per loro! Che le fiamme dell’Inferno brucino più del solito, per chi ha permesso lo scempio della meravigliosa Palermo settecentesca, per chi l’ha bombardata senza pietà, per chi si compiace delle macerie ancora fumanti e ininterrotte intorno al porto... che dicevamo? Che farnetico è questo? Parlavamo da soli? Ma certo: e solo così potremo essere scusati». Il racconto del viaggio è la cifra più congeniale a Brandi. E qui esce lo scrittore puro, il narratore che si appoggia ai luoghi per raccontare storie. Poi c’è il critico d’arte. Che nei suoi saggi, più che far parlare le opere, cerca di rianimare, davanti a noi, il loro autore.
Esemplare, per questo, nel restituircelo vivo, il Ritratto di Morandi, un testo scritto con l’attitudine del ventriloquo, partecipando ai malumori del pittore, ma anche indossando i suoi abiti e mimando le sue reazioni. Qualcuno dei suoi collezionisti ha prestato un’opera per una mostra all’insaputa di Morandi? «Neanche facendo le croci con la lingua su ognuno dei consunti e, a dire il vero, pulitissimi gradini di Via Fondazza riusciranno ad avere più un quadro, né un disegno, né un acquarello, né un’incisione. Se ne accorgeranno... quindi, i malcauti espositori, già a quest’ora si sentono torcere le budella dal rimorso. Senonché... senonché ebbene io credo che abbiano una sola via d’uscita. Morandi, unico o poco meno che unico fra gli artisti moderni, adora l’arte antica. Se riescono a farsi nascondere dalle sorelle di Morandi in uno di quegli armadi che bordano il lungo corridoio da cui si accede alla cameretta delle meraviglie, e se, uscendo con qualche precauzione da quell’abitacolo, offriranno in segno di espiazione al Maestro, un Renoir o una miniatura ottoniana, un senese o un bolognese del Trecento, o un bozzetto di Delacroix, forse riusciranno ad appianare le rughe sdegnose dalla fronte olimpica di Morandi». E certo Morandi lo stimola, il vuoto d’avventura della sua vita consente a Brandi di costruirne una interiore, perfettamente verisimile, e sostanzialmente vera, fino al punto da rinnegare e cacciare Arcangeli che aveva osato contrastare l’ammiratissimo critico amico. Quanto Brandi sente Morandi, tanto Morandi si sente rispecchiato nelle sue parole. L’archetipo della pittura che egli vede nel maestro bolognese gli consente questa confidenza come se, parlando di lui, parlasse di sé, di una interiorità riparata, claustrale, una vocazione non intrapresa (Brandi fu, alle origini, anche pittore). E pure le due personalità e le due vite, certo complementari, non potevano essere più distanti. L’uno, curioso, viaggiatore instancabile, espansivo; l’altro, pensoso, immobile, ombroso (almeno apparentemente). Poi, forse, allo spirito dell’uno corrispondeva l’ironia dell’altro. E d’altra parte, i sodalizi di Brandi procedevano per difformità, non per somiglianza. Così fu con Argan, con Bianchi Bandinelli, con Manzù. Anche lo scultore bergamasco vive nelle parole di Brandi, ma non c’è il personaggio, bensì l’animazione delle sculture e dei bassorilievi carezzati come figli, nella materia solo all’apparenza inanimata. Lo sguardo di Brandi è comunque compiaciuto. Brandi osserva gli artisti con il cuore più che con la ragione, come un innamorato. Non li spiega, li ama, li corteggia, ne gode. Con questo procedimento trasforma la pagina critica in un canto. Leggendolo, ne sentiamo la voce. Non è difficile, con una prosa come quella di Brandi, procedere a una scelta che ne preservi l’essenza e la sostanza. Nelle pagine di viaggio, anche in quelle esotiche, sia nell’entusiasmo, sia nella delusione, nella Gerusalemme mancata come nella Tripoli ritrovata alle radici della memoria, c’è sempre un intrinseco godimento, un’inesauribile sorpresa che si trasmette a noi intatta, senza la polvere del tempo. E vengono dai luoghi più remoti e sconfinati come da quelli più vicini di cui conosce a memoria i confini, dall’India come dalla Puglia, da Santorino come da Vignano; ma anche dal ricordo della balia Dinda, «una donna fantasiosa, sdentata e allegra» e popputa; o dall’incontro con donne indiane: «Ma sono le donne la cosa più bella dell’India. E proprio nel loro complesso perché, isolate, si vedono anche in Europa. In India, nella luce straordinaria del giorno, in casa come nelle strade, avvolte regalmente nei sahri, sembrano d’una razza privilegiata rispetto agli uomini, i quali tornano folla, e folla di pappini, insaccati per lo più in camicioni bianchi e con la bustina bianca in testa».

E via a raccontare, con un piacere impressionistico, bozzettistico ma preciso. Così un intero saggio se ne va per descrivere il sahri, con nostra piena soddisfazione. E con un gusto per il superfluo da far invidia a Parise. E sempre in una prosa tersa, con una luce mattutina, un’aria pulita.

E, le rare volte che si fa spazio la malinconia, è per l’avvertimento di una distanza fra la bellezza della sua Siena, e il suo stato attuale, fino al sigillo di una condizione intrinsecamente contraddittoria: «Ma è difficile essere senesi, forse ancor più che essere italiani».

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