Ryder, ecco chi rischia di perdere il treno

Da un paese dell’alta Brianza (nelle vicinanze di Casatenovo: non sono autorizzato ad altre specificazioni) ricevo questa mail di una signora che si firma «Fio».

Mi trovavo non tanto tempo fa a Roma e fui invitata a una cena importante in una casa importante. Tavola splendida. Gente di livello. Tutto sembrava perfetto. Senonché, già in coda all’aperitivo, la maggioranza dei presenti comincia a parlare di golf. Ma non dei campioni o delle campionesse di questo sport. Proprio un accalorato accavallarsi di discorsi tecnici su ferri, ostacoli, palle perse e altre cose del genere. E, una volta a tavola, le discussioni continuano e non c’è verso d’interferire per cambiare tema. Io, che non gioco a golf, mi sentivo un po’ frustrata. Fino a quando, per fortuna mia e di un paio di altri invitati, la padrona di casa, resasi conto dell’imbarazzo della minoranza silenziosa, si è alzata e ha detto: cari amici golfisti, per favore non insistete nel raccontare storie che non a tutti interessano e che li escludono dalla conversazione: mi pare che non guasti un po’ di bon ton. E qui la maggioranza è ammutolita. Era giusto così?

Non giusto. Giustissimo. Il bon ton è parente stretto dell’etichetta nel golf, direi che ne è una lodevole appendice.

Ed è bene tenerne conto non soltanto nelle «case importanti» ma perfino nei bar e nei ristoranti delle Club Houses dei Circoli, dove spesso – peraltro – i dibattiti sui perché e i percome delle buche appena completate diventano opprimenti. Il golf è una bella e sana passione, una sorta di piacevole mania che tuttavia va onorata con i fatti del campo e non con le cascate di parole in cui si rischia di annegare.
carlograndini@libero.it

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