Controcultura

Sì, viaggiare. Ma per forza e non per turismo

Il nomadismo ai giorni nostri è un'arte. Se qualcuno pensa che la depressione sia una malattia dei ricchi dovrebbe provare a vivere i suoi giorni e le sue notti in un furgone.

Sì, viaggiare. Ma per forza e non per turismo

I l nomadismo ai giorni nostri è un'arte. Se qualcuno pensa che la depressione sia una malattia dei ricchi dovrebbe provare a vivere i suoi giorni e le sue notti in un furgone. Soprattutto dopo i sessant'anni. Eppure questa è la cifra esistenziale condivisa ormai da 150mila americani. Chi abbia visto il film Nomadland (regia di Chloé Zhao, protagonista Frances McDormand), uscito l'anno scorso, molto amato dalla critica e premiato ovunque, Oscar compresi, o ne abbia l'intenzione, sappia che il libro omonimo è altrettanto avvincente, se non di più. Scritto da un'eccellente giornalista d'inchiesta, Jessica Bruder, Nomadland (Edizioni Clichy, traduzione di Giada Diano, pagg. 384, euro 17) è un resoconto di quali scalcinate strade secondarie abbia imboccato di recente il Sogno Americano. Altro che una macchina in garage e un pollo nel forno. Qui in macchina ci si vive direttamente, e il pollo, se proprio lo si vuole, lo si cucina su un fornelletto a gas, sperando di non saltare in aria. La crisi finanziaria del 2008, e la difficoltà anche insuperabile di pagare i mutui e gli affitti, hanno reso la casa un lusso non più sostenibile per molti americani. Di lì, e dal bisogno di guadagnarsi il pane, è nata la prima cellula dei workamper, gente che letteralmente si accampa nei parcheggi dei luoghi di lavoro temporanei. Fanno di necessità virtù. Quelle occupazioni, infatti, sono a scadenza, sia che si tratti di raccogliere barbabietole in North Dakota o riempire scaffali di Amazon nel Kentucky, o sorvegliare campeggi turistici in California o grigliare hamburger fuori da uno stadio alla finale di qualche torneo di football. Non sono «senzatetto», sono «senzacasa». Finito un lavoro, vanno a cercarne un altro a centinaia, migliaia di chilometri di distanza.

L'autrice non solo li ha seguiti per tre anni (in particolare una di loro, Linda May) ma per un po' ha fatto lo stesso. Un conto è intervistarli, altro è vivere così, battendo i denti al gelo continentale o cuocendo nei deserti più aspri, lavandosi a colpi di salviettine e defecando in un secchio. Questi vandweller (più o meno si può tradurre con «camperisti» o «roulottisti») sono mezzi schiavi e mezzi pionieri del nostro tempo, ma senza alcuna retorica idealista. Sono minimalisti ed ecologisti per forza. Ma non sono lagnosi, anzi, cercano sempre il lato buono della loro condizione; si vedano ad esempio il socializzante raduno annuale di gennaio in Arizona, il Rubber Tramp Rendezvous, e la loro capacità di usare la rete e di scambiarsi informazioni essenziali. In altre parole: di collaborare. Sono materiale bollente per la sociologia, ma i biologi li chiamerebbero «bioindicatori»: organismi sensibili, capaci di segnalare i cambiamenti profondi di un ecosistema. E se un'organizzazione economica basata sulla triade previdenza sociale/pensioni private/risparmi investiti all'improvviso implode, ecco un'alternativa possibile. Capacità di analisi e passo narrativo fanno di questo un grande libro.

Ottimo per le vacanze: ne racconta l'antitesi ideale.

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