Quando uno pensa alla letteratura, alle sue fiere, ai suoi saloni, pensa, se in vena di ottimismo, a un mondo ecumenico pieno di intellettuali, curiosi del libro, editori in cerca di affari e talenti. Invece può capitare che anche i libri diventino tema caldo, bersaglio politico.
Per rendersene conto basta guardare alla campagna di boicottaggio che sta montando attorno al Salone del libro di Torino, una campagna partita adesso per un evento che si terrà a maggio e che di norma ha la forma dellinnocua kermesse. Una campagna che prevede di tutto, dalle pressioni sul marketing al boicottaggio delle case editrici che accetteranno di esporre alla fiera sino alleventualità di dar vita a un salone alternativo e concorrente di quello ufficiale. Insomma un ostracismo in piena regola che circola come un tam-tam su Internet in siti e blog di quellarea che si è soliti definire come «dei movimenti» che finisce per scatenare dibattito e imbarazzo sulle pagine di giornali come Liberazione.
Ma qual è il motivo della contesa? Il Salone del libro ha escluso case editrici di una parte politica, invita autori razzisti o xenofobi, chiude le sue porte ad acclarati scrittori politicamente scomodi? Niente di tutto questo. Semplicemente, come succede ogni anno, alla manifestazione è invitato un Paese come ospite donore. E questanno è toccato a Israele, in occasione dei sessantanni dalla sua fondazione. Peccato che la semplice esistenza di Israele sia considerata da alcuni unoffesa alla giustizia. Nonostante processi di pace, risoluzioni Onu, prove provate del fatto che si tratti di uno stato democratico, la semplice presenza di uno stand con la bandiera della stella di Davide appare intollerabile. Cosa importa poi che tra gli scrittori invitati spicchino nomi come David Grossman, Amos Oz, Edgar Keret o Abraham Yehoshua, intellettuali noti per la loro attenzione al mondo palestinese, al dialogo?
Per alcuni, a esempio il segretario provinciale del PdCi Vincenzo Chieppa, non cè garanzia intellettuale che tenga: Israele è uno Stato oppressore, la cui presenza è inconcepibile se non vengono invitati contemporaneamente anche i palestinesi. Tantè che ha inviato una lettera alle istituzioni torinesi e al presidente della Fondazione per il Libro, Rolando Picchioni, per chiedere di rivedere la scelta «aggiungendo quale ulteriore ospite donore della manifestazione lAutorità Palestinese rappresentata dai numerosi intellettuali e scrittori che fanno di quellarea del mondo un autentico giacimento culturale patrimonio di tutta lumanità». Come se invitando il Pakistan fosse obbligatorio invitare anche lIndia. Oppure come se qualcuno, non approvando la campagna militare in Irak, decidesse di boicottare gli scrittori statunitensi, compresi quelli a cui quella campagna militare non piace per nulla.
Un ragionamento di buon senso, questo, che alcuni intellettuali gauchiste come Stefania Podda hanno cercato inutilmente di portare avanti in nome della cultura. Tanto più che dal Salone del libro fanno sapere che lhanno prossimo lospite donore sarà lEgitto come capofila, ma che ad «andare in scena» sarà lintero mondo culturale arabo. Tutto inutile. Un pezzo di sinistra tra cui si annovera Maurizio Musolino, direttore della Rinascita, il settimanale dei Comunisti italiani, tira dritto nello sforzo di mobilitare una campagna che affossi il salone: «Scelta vergognosa. Eppure non sorprende. Sappiamo che non sarà la sola iniziativa che dalla prossima primavera proporrà la nascita dello Stato di Israele come momento centrale di dibattiti e iniziative culturali. Siamo pronti ad un vero e proprio bombardamento mediatico».
Ma in fondo non sono tanto le prese di posizione «ufficiali» a far venire un groppo in gola agli amanti del confronto culturale quanto, piuttosto, tutto il cascame che ne è conseguito su Internet.
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