Sul finire del 1959, nell’anno centenario della seconda guerra d’indipendenza, la Rai trasmise in prima serata un bellissimo sceneggiato di Anton Giulio Majano in cinque puntate dal titolo Ottocento. Si trattava di un lavoro appassionante, ben curato sia per l’attenta ricostruzione degli ambienti e degli arredi, sia per il cast che comprendeva nomi di rilievo, da Sergio Fantoni nella parte di Costantino Nigra a Mario Feliciani in quella di Napoleone III fino a Lea Padovani in quella dell’imperatrice Eugenia e a una giovanissima Virna Lisi. Lo sceneggiato era tratto dall’omonimo romanzo di Salvator Gotta dedicato alle vicende del Risorgimento rivissute attraverso la figura di Costantino Nigra.
Salvator Gotta, del quale ricorre quest’anno il trentennale della scomparsa avvenuta nella riviera ligure dove si era ritirato, è stato non un scrittore non solo prolifico ma anche fra i più amati della prima metà del Novecento. Molti suoi romanzi - una settantina di titoli - superarono le 100mila copie, furono tradotti in una decina di lingue e furono apprezzati anche da critici severi e attenti come Giuseppe Ravegnani. È stato calcolato che le vendite dei suoi volumi abbiano superato il milione di copie. Quando Tommaso Monicelli lo convinse a scrivere per il rotocalco Novella il romanzo La signora di tutti, la rivista registrò un balzo: da 180mila a ben 250mila copie. E dal romanzo venne tratto un film, poi presentato e premiato al festival di Venezia.
Oggi lo scrittore piemontese (nacque in provincia di Ivrea nel 1887) è quasi dimenticato e da tempo non più presente nei cataloghi di editori che sulle sue opere costruirono una fortuna. A tale destino hanno contribuito, certamente, il mutamento del gusto, ma anche certe preclusioni di natura più propriamente “politica” che tendevano a considerare obsoleti il “messaggio” e i valori, “nazionali”, trasmessi nei romanzi di questo scrittore gentiluomo, caparbiamente legato alla storia dell’Italia risorgimentale, sabauda.
In una delle ultime opere, L’almanacco di Gotta, gustoso excursus autobiografico ricco di aneddoti e notizie sul mondo culturale dell’Italia del primo novecento, egli liquidò con poche parole la questione: «Non intendo nascondere - ciò che del resto è risaputo - la mia fede monarchica e sabauda. Piemontese di sangue e di spirito, non potrò mai distruggere il legame (non meno forte di una religione) che mi tiene avvinto ai secoli di storia durante i quali la Casa di Savoia resse paternamente e gloriosamente le sorti del mio Paese». A Mussolini e al fascismo si avvicinò gradualmente, per intercessione dello scrittore Giuseppe Brunati, dopo qualche iniziale diffidenza, all’indomani dello «sciopero legalitario» dell’agosto 1922 e nella convinzione che nel fascismo potessero trovare casa, una volta abbandonata la «tendenzialità repubblicana», anche coloro che, come lui, si nutrivano del culto del Risorgimento.
Per il fascismo Gotta scrisse, nel 1925, su incarico del Direttorio Nazionale del Pnf e dietro compenso di cinquecento lire, ma anche su richiesta del carissimo compagno di studi e compositore Giuseppe Blanc, l’inno Giovinezza. Blanc ne aveva composto la musica nel maggio 1909 in sole quattro ore su un testo buttato giù in tutta fretta, da Nino Oxilia. L’inno, scritto e composto per un pranzo di laurea, ebbe l’onore della stampa: Blanc ne fece tirare 150 copie. Si trattò, insomma, di un «commiato goliardico» che ebbe fortuna. Fu adottato dagli alpini, che lo udirono suonare e cantare dall’autore al corso allievi ufficiali. Blanc lo inserì all’interno di un’operetta, Festa di Fiori, e se lo ritrovò poi stampato come Inno degli arditi firmato con il nome di un presunto autore. A questo punto fece valere i suoi diritti su quella musica che gli era cara. Mussolini in persona intervenne perché Blanc avesse «la legittima soddisfazione artistica alla quale aspira e alla quale ha evidentemente diritto». Così fu coinvolto Gotta per la stesura del testo.
Gotta e Mussolini non ebbero molti incontri. L’ultimo avvenne ai primi di luglio del 1943, quando lo scrittore, su richiesta del Duce, si recò a Palazzo Venezia per portargli i tre volumi del romanzo Ottocento. Mussolini osservò che, descrivendo Costantino Nigra, aveva omesso di sottolinearne l’appartenenza alla massoneria che poteva spiegarne il successo nella cerchia di Napoleone III. E aggiunse scherzosamente: «Hai avuto paura di me, della censura. E non volevi mettere il tuo bel personaggio in cattiva luce». Poi osservò che lo riteneva, da tempo, maturo per l’Accademia d’Italia della quale non era ancora entrato per la gelosia dei colleghi scrittori che, sdegnando la popolarità, gli rimproveravano il fatto di aver pubblicato romanzi a puntate su riviste popolari.
Che Gotta fosse uno scrittore “di consumo” è fuor di dubbio. Ma i suoi romanzi erano ben diversi dalla letteratura popolare, quella dei Luciano Zuccoli, dei Lucio D’Ambra, dei Michele Saponaro e via dicendo, se non per altro almeno per il gusto di una narrazione complessa e articolata che aspirava a tratteggiare un mondo, quello della borghesia e dell’aristocrazia piemontese prima e italiana poi, attraverso il racconto di vicende familiari che si distendono nel tempo e si intrecciano con i fatti storici. Sotto questo profilo, fu una delle espressioni più significative del romanzo “ciclico” e “storico” che non ebbe mai, in Italia, quella fortuna che al genere arrise per esempio Oltralpe secondo una linea che va dalla Comédie humaine di Honoré de Balzac a Les Thibault del premio Nobel Roger Martin du Gard, passando per il ciclo dei Rougon-Macquart di Emile Zola.
Cresciuto e formatosi nella Torino d’inizio del secolo alla scuola di Arturo Graf e del mondo che circondava questo illustre poeta e critico letterario, Gotta esordì come romanziere con Il figlio inquieto, pubblicato nel 1917, in piena guerra mondiale e destinato ad essere inserito nel ciclo narrativo dei Vela, che segue le vicende di una famiglia piemontese dal Risorgimento fino all’età contemporanea e al quale è rimasta legata la sua fama di scrittore.
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