La «salvezza» che viene dopo ogni starnuto

Carissimo Granzotto, per distrarla dalla politica e dalla pressione di quei lettori/elettori perplessi che ultimamente la vogliono incastrare mettendola all’«Angolo», le sottopongo un quesito facile facile: da quando è invalso l’uso di dire «Salute!» a chi fa uno starnuto? Fa forse parte di qualche cerimoniale, magari spagnolo? È un’usanza veneta o italiana? E sarebbe una grave infrazione al galateo non dire niente? Sa che fatica mi risparmierei un giorno sì e uno no! Mio marito di starnuti ne fa anche 15 di seguito! Può sembrare una facezia, ma anche su una materia così lei potrebbe saperne una più del diavolo.
San Donà di Piave (Venezia)

Addirittura una più del diavolo! Che poi, gentile lettrice, cosa ne sappiamo di quante ne sa il diavolo? Mai incontrato, io. Lei? Magari ne sa quante ne sa, per dire, Pierluigi Bersani (e cioè una sola: si dimetta, si dimetta...). Però colgo volentieri il pretesto che mi offre (lei, non il diavolo) per prendermi una ricreazione e dopo tanto conversare di cose serie, distrarci con le nostre care bagattelle linguistiche. Ho letto che augurare salute - poi vedremo in quale senso - allo starnutente è usanza assai antica. Risale alla Roma dei Cesari e si riferiva alla credenza che con lo starnuto rischiasse di uscire dalle narici l’anima, l’essenza. Il «salute», dunque, è salus, incolumitas, perfettamente reso dai cruscanti che nel loro dizionario ne davano questa definizione: assicuramento, liberazione da ogni danno e pericolo. Salvezza. Pertanto ed ecco che ci siamo, il «Salute!» dei romani stava per: l’hai scampata bella, meno male. Complimenti. La consuetudine prese poi piede perché in tempi meno lontani, ma parliamo sempre di un migliaio d’anni fa, si affermò la convinzione - la leggenda metropolitana, diremmo oggi - che uno starnuto troppo vivace potesse portare alla morte. E sembrava dunque giusto complimentarsi con lo starnutante per lo scampato pericolo.
Con queste premesse lei potrà ben capire, gentile lettrice, che tutto il gran discettare sull’opportunità o meno di complimentarsi per lo stato di salute - qui proprio nel senso di buona salute - con chi con uno starnuto manifesta invece di averla precaria (incipiente raffreddore o influenza o febbri allergiche), cade come corpo morto cade. E finisce nel nulla l’«ampio e appassionato dibattito» sulla più o meno buona educazione nel rispondere con un «Salute!» a uno starnuto o sternuto che dir si voglia. Nel caso, la buona educazione è spettanza dello starnutente perché il suo «eccì!» si riduce a questo: un getto di 40mila particelle di mucosa gravide d’ogni genere di virus che viaggia a una velocità che può andare dai 160 ai 300 chilometri l’ora. E che galleggiando contaminano l’aria all’intorno per diverse ore. Insomma, uno starnuto in un locale chiuso, mettiamo un autobus, il vagone di un treno, la sala d’aspetto d’un dentista, è una vera arma biologica se non di distruzione, di ammalamento di massa. Come deve dunque procedere lo starnutente per non farsi monatto? Non col gesto usuale, di mettersi una mano davanti alla bocca (in tal modo la mano si trasforma in coltura microbica e alla prima stretta con un’altra mano, alla prima carezza all’amata/amato o al frugoletto i microbi intonerebbero il Ballo Excelsior). Stando ad approfonditi studi medico-comportamentali, o il kleenex o starnutire all’interno del gomito appositamente portato - e alla velocità del suono - all’altezza della bocca. Io, comunque, non l’ho mai visto fare. E allo starnuto d’uno starnutatore non ho mai risposto: «Salute!».

Non per buona o cattiva educazione, ma per autodifesa. Alla esplosione di uno starnuto chiudo infatti la bocca e trattengo il fiato. Mia nonna mi insegnò che bisogna fare così, per non rischiare di prendersi «una infreddatura».
Paolo Granzotto

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