Sanità, mancano gli infermieri è caccia nell’Est Europa

Marian Grosu, 33 anni, da 5 in Italia. «Ci sono voluti due anni per il riconoscimento dei titoli di studio, ma ne è valsa la pena»

A.A.A. Infermieri cercansi. Disperatamente. Secondo i dati raccolti dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) in Italia ce ne sono appena 5,4 ogni mille abitanti: la metà (o quasi) di quelli attivi in Inghilterra e Germania, rispettivamente, 9,1 e 9,7 per mille; e, addirittura, un terzo rispetto a quelli presenti in Irlanda. A lanciare l’allarme è stata, a più riprese, anche l’Ipasvi, la federazione nazionale a cui fanno capo i 342mila infermieri che operano nelle strutture pubbliche e private nazionali. «Per colmare le lacune ne servirebbero almeno 30mila» taglia corto il presidente Annalisa Silvestro. Ma perché si raggiungano standard ottimali, azzarda, bisognerebbe sfiorare quota 90mila. Con una particolarità: la sola Lombardia ne potrebbe assorbire 12mila.
L’emergenza è tale che, già nel 2005, il governo autorizzò, con un decreto, la riassunzione dei pensionati, o, ancora, il pagamento, con tariffe da liberi professionisti, delle prestazioni extra-orario di chi è di ruolo. Quest’anno il ministero della Salute ha siglato un accordo con le università perché aumentino i posti disponibili nelle facoltà di scienze infermieristiche. Ma tant’è: la situazione resta critica. E la via d’uscita sembra una sola: reclutare «camici bianchi» stranieri.
È sempre l’Ipasvi a fornire i dati: sarebbero già in 20mila gli infermieri nati al di fuori dei confini nazionali attivi tra le corsie di ospedali, ospizi e case di cura italiane. Con tassi di penetrazione, in alcuni casi, anche del 15-20% sul totale organico. Anche perché, proprio a causa della carenza cronica di questo tipo di figure professionali, la legge 189/2002 ha consentito loro l’ingresso nel Paese per motivi di lavoro al di fuori delle quote previste dai singoli decreti flussi. Unico obbligo: far riconoscere i propri titoli di studio dal ministero della Salute. «Che si tratti o meno di persone già residenti in Italia la pratica richiede, in media, 4-6 mesi» racconta Luca Casadio, business manager della divisione Medical Speciality dell’agenzia per il lavoro Randstad. «Per i cittadini comunitari, però, basta qualche settimana».
Un bel vantaggio, quest’ultimo, soprattutto se si pensa che la maggior parte del personale paramedico straniero proviene proprio dai Paesi neocomunitari dell’Est Europa: Romania e Polonia, in primis. «Ed è proprio a Bucarest e Varsavia che abbiamo attivato anche i primi piani di reclutamento internazionale» interviene Angela Balducci, business development manager della divisione Medical & Science dell’agenzia Adecco, attiva, su questo fronte, anche in Ucraina e Bangladesh. «La richiesta, insomma, è tale che preferiamo assicurarci le risorse all’estero».
Stesso approccio per Randstad o, ancora, per Ali, Obiettivo Lavoro e Temporary, solo per citare alcune delle società ex interinali attive nel mercato infermieristico: direttamente o tramite accordi ad hoc con strutture straniere, agenzie per il lavoro o scuole professionali che siano, selezionano i profili di cui hanno bisogno e avviano le pratiche per il nulla osta italiano ai titoli di studio. Una volta ottenuto c’è il trasferimento dei candidati in Italia e l’obbligo di frequentare un corso di formazione dalla durata variabile: da 2 a 6 mesi, a seconda del programma.

Balducci di Adecco aggiunge: «L’iter si conclude con l’inserimento dei candidati negli ospedali con, in genere, un contratto di 8-12 mesi». L’esperienza insegna che al termine di tali contratti, nella stragrande maggioranza dei casi, scatta l’assunzione dalla struttura stessa. Anche a tempo indeterminato.

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