«Sarò nel film di Placido sul ’68 ma gli studenti m’impaurivano»

RomaDagli occhi al bracciale di pietre dure, Laura Morante, sullo sfondo di Villa Borghese, s’avvolge quietamente di blu, colore metafisico che fa da ponte fra terra e cielo. Così la sua femminilità, sensibile ed empatica, rassicurante e benevola come la conosciamo dai suoi 50 film, firmati Bertolucci e Moretti, Monicelli e Placido, Avati e Verdone, per tacere del resto, emergerà nuovamente ne Il grande sogno, fin troppo atteso biopic drammatico di Michele Placido, in concorso a Venezia, e nell’amara commedia di Pupi Avati, Il figlio più piccolo (in autunno nelle sale), dove la neoregista (la nipote della scrittrice Elsa esordirà con Ciliegine, che pure interpreta), sarà simbolo dell’amore disinteressato e oblativo. Non a caso il suo personaggio di donna rassicurante e d’interprete talentuosa è riemerso da La stanza del figlio di Nanni Moretti: ancora una madre soccorrevole, per Avati e una figura benevola, per Placido.
Cara Laura Morante, è l’estate della mater amabilis, per lei?
«Della “scemina”, piuttosto. Come mi chiama mio marito Christian De Sica, ne Il figlio più piccolo. Dove interpreto Fiamma, una che si è fatta fregare dal marito, dal quale è separata, ma che ama ancora. Una donna ricca, la cui ingenuità è da manuale».
La cronaca gronda di figure femminili, raggirate, però fiduciose verso chi le frega...
«È vero, purtroppo. Anche i bambini si fanno fregare, come certe donne... Rientra nel quadro del rapporto tra vittima e carnefice. E qui stanno i toni paradossali della commedia di Pupi, col quale torno piacevolmente a lavorare (dopo Festival e Il nascondiglio, ndr). La mia Fiamma è solo innamorata di quest’uomo, che l’ha sposata per interesse. Vive nel culto del marito ed è una specie di tardo-hippy, che si esibisce con la sua band da “figlia dei fiori”. Ma è una gran schiappa!».
A proposito di figli dei fiori: ne «Il grande sogno» rivivrà anche lei il suo, personale ’68?
«Ero adolescente, all’epoca. Piuttosto, ho “fatto” i moti del ’77 e, in quel periodo, già lavoravo e preferivo starmene a distanza».
Quali ricordi ha di quegli anni ribelli?
«Mai stata studentessa! Non ho vissuto le battaglie studentesche, perché già avevo diverse attività. E poi, gli studenti mi facevano paura».
In che senso gli studenti le facevano paura?
«È qualcosa che ha a che vedere con la mia timidezza: i rapporti con i miei coetanei m’intimidivano... Tutti lì, con la barba, pieni d’impeto... Non sono stata studentessa: me ne dispiace ancora oggi».
Non a caso Placido, che nel suo film autobiografico narra di quand’era un poliziotto, infiltrato tra i sessantottini romani, alla Sapienza, l’ha messa nel ruolo d’una prof...
«La professoressa Maddalena. Ma non è una da zero in condotta, anzi. Si tratta d’una donna brava e premurosa, che ammetterà ai corsi dell’Accademia d’arte drammatica, nonostante il suo forte accento pugliese, l’allievo-celerino, Riccardo Scamarcio. Col quale avrà anche una breve relazione».
È arrivato il tempo delle «Ciliegine», il film che lei produce, scrive, dirige e interpreta?
«Sono a buon punto: lo zoccolo duro produttivo c’è già. In Francia, produce Bruno Pesery; da noi, l’Istituto Luce e il fondo di garanzia del ministero.

Sarà una commedia buffa, basata sul tema della fiducia. E sono contenta del cast: Gérard Lanvin, Marina Fois e Pierre Arditi. Oltre a me, ovvio. Sarà troppo?».
Il tema della fiducia la ispira molto?
«Mi sembra centrale nella vita di noi tutti».

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