Sarah Palin regola i conti con l’ex amico John McCain

Sarah Palin, l’aspirante coscienza conservatrice del partito repubblicano, torna sulla scena. E lo fa da par suo: col botto. La protagonista della spettacolare ma perdente battaglia per la vicepresidenza degli Stati Uniti di un anno fa si ripresenta agli americani nei panni di autrice di un libro il cui titolo è tutto un programma: «Diventare una canaglia» (in inglese «Going Rogue»). Un libro che non è ancora uscito ma che è già un evento. Un po’ come lei del resto, che non è mai in realtà stata altro se non la governatrice di uno Stato marginale e periferico, ma che riesce sempre a far parlare di sé e a dare alle ardenti masse dei suoi ammiratori l’impressione che sia sul punto di fare gli ultimi passi verso il trionfo.
Fonti editoriali rivelano che la Palin ha ricevuto in anticipo 5 milioni di dollari per il libro, che ha scritto a quattro mani con Lynn Vincent. «Going Rogue» verrà stampato in prima edizione nella bellezza di un milione e mezzo di copie e sebbene nessuno lo abbia ancora potuto tenere tra le mani è già un bestseller grazie alle prenotazioni.
Nel tipico stile dell’autrice, è un libro di invettive. Sarah Palin aveva molti sassolini da togliersi dalle sue scarpe a tacco alto. I più fastidiosi riguardavano certamente il periodo della campagna elettorale che doveva proiettarla sulla seconda poltrona più importante d’America, come vice di John McCain. Ed ecco puntuali le accuse al mancato numero uno della Casa Bianca, al suo staff e ai responsabili della campagna repubblicana del 2008. La «bulldog col rossetto» ringhia di essere stata obbligata a mosse che non avrebbe voluto compiere, come l’acquisto per la campagna di vestiti costosi e appariscenti, cosa che pagò con critiche a non finire; o di aver subito la linea dello staff di McCain su una serie di questioni delicate, soprattutto quella dell’annuncio della gravidanza di sua figlia, che fu fatto con una dichiarazione sbagliata che la fece infuriare.
La pittoresca outsider dell’Alaska sostiene anche che alcune delle sue famose figuracce non furono colpa sua. Per esempio, scrive che i responsabili della campagna non ebbero nulla da obiettare quando lei sostenne in alcune interviste televisive che la contiguità del suo Stato con l’estremo oriente russo le conferiva competenza in politica internazionale. E anche quando inciampò su domande banali del tipo quali giornali legge abitualmente la mattina o come si chiamano i giudici della Corte Suprema non fu assolutamente colpa della sua impreparazione, bensì della perversa volontà di certi giornalisti di «tendere delle trappole». La signora non si dà inoltre pace del fatto che durante i mesi cruciali prima delle elezioni gli strateghi repubblicani l’avessero tenuta nascosta alla stampa per evitare che facesse delle gaffe: eppure dovrebbe essere in grado di spiegarselo.
Non è tutto, anzi. Sarah Palin afferma che i responsabili della campagna di McCain si siano rifiutati di rimborsarle 50mila dollari di spese legali per il vaglio della sua candidatura, giustificandosi con il fatto che lei doveva sapere che quei soldi li avrebbe rivisti solo in caso di vittoria: una circostanza che lo staff del senatore dell’Arizona nega seccamente. Quanto al rimpianto per non aver avuto l’opportunità, come lei pretendeva, di tenere un discorso di concessione della sconfitta il 4 novembre, i consiglieri di McCain ricordano che il candidato presidenziale osservò che sarebbe stata la prima volta nella storia americana. E fanno capire che sarebbe stata anche una cattiva idea, stante la tendenza della Palin a usare linguaggi «canaglieschi».
Ce n’è dunque d’avanzo per prevedere che «Going Rogue» farà rumore. Sarah Palin sfrutterà il caso alla grande.

Il 18 partirà un suo tour promozionale di tre settimane in pullman attraverso la profonda provincia americana, famiglia al seguito. Dove poi voglia arrivare con tutto questo non risulta chiaro. Probabilmente neanche a lei.

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