da Milano
Decine di dossier sono sulla scrivania di Sergio Marchionne. Sono tutte manifestazioni d’interesse, provenienti da Stati americani, Canada e Messico, che hanno come denominatore comune la volontà di sostenere il ritorno Oltreoceano della Fiat.
Entro l’anno l’amministratore delegato del Lingotto dovrebbe sciogliere la riserva, comunicando luogo, modi e tempi del «Piano America». L’intenzione, come più volte ribadito da Marchionne, è di produrre negli Usa veicoli Alfa Romeo (l’erede della 159, forse anche la MiTo) e, una volta completata la gamma con cabrio e giardinetta, la Fiat 500. Un primo «assaggio» è intanto in corso con l’Alfa 8C, prodotta a Modena, e prenotata da molti appassionati Usa. Importante, ora, è decidere dove andare e quale dei numerosi corteggiatori scegliere. Secondo quanto risulta al Giornale ci sono già stati alcuni «contatti con Chrysler» e «le parti si sono riunite più volte mettendo sul tavolo varie ipotesi di collaborazione, dalla produzione alla distribuzione dei veicoli». Del resto, guardando bene, è difficile che Torino torni a cooperare con il vecchio alleato Gm, anche perché Marchionne è stato più volte indicato come candidato ideale a prendere il posto del rivale Rick Wagoner. La strategia di Alan Mulally, numero uno di Ford, non prevede invece nuovi accordi. La crisi economica che attanaglia gli Usa, la disoccupazione in aumento, le fabbriche dei costruttori di auto locali (Gm, Ford e Chrysler) costrette a chiudere i battenti o a lavorare a regime ridotto rappresentano, per Fiat e la concorrenza extra Usa, una situazione favorevole. Le manifestazioni d’interesse all’attenzione di Marchionne, infatti, contengono proposte allettanti, tutte orientate a rivitalizzare aree depresse e a risollevare l’occupazione. Ecco allora sul piatto forti sgravi fiscali, disponibilità da parte degli Stati a sobbarcarsi i corsi di formazione del personale e la realizzazione di tutte le infrastrutture necessarie.
È una vera gara quella che si è aperta Oltreoceano, che oltre a Fiat, guarda ora con interesse anche a Volkswagen, che il mese prossimo farà sapere dove costruirà, dal prato verde, il suo nuovo sito. Lo stabilimento tedesco da 300mila veicoli l’anno si aggiungerà a quello di Puebla, in Messico (350mila), allo scopo di portare la produzione nel Continente americano ad almeno 800mila unità entro il 2018, contando anche le vetture importate dall’Europa. L’ultima gara ha avuto come protagonista la giapponese Honda: a contendersi la produzione di vetture erano Illinois e Indiana. Alla fine l’ha spuntata il secondo, proponendo il pacchetto di agevolazioni più attraente. «In questo momento - dice una fonte - l’autonomia e la flessibilità di cui godono gli Stati americani fanno impallidire l’ex Cassa del mezzogiorno».
«A mio parere - dice Stefano Aversa, presidente di AlixPartners, dal suo osservatorio di New York - vanno forte gli Stati del Sud, con inclusi anche Tennessee, Texas e Carolina. In queste aree si è sviluppato anche un ottimo indotto e ci sono forti pressioni politiche per attirare investimenti dall’estero. Inoltre, sono territori non sindacalizzati. Ma anche i territori “storici” dell’auto, quelli del Mid-East, hanno recuperato posizioni». Tirato per il pullover più o meno palesemente (a uscire allo scoperto con un’offerta, per ora, è stato solo l’Ontario), Marchionne è alle prese con una decisione non facile. Potrebbe mettersi d’accordo con Chrysler con cui condividere un sito funzionante ora a singhiozzo (il modello potrebbe essere l’intesa Fiat-Ford, in Polonia, dove gli americani pagano il Lingotto per assemblare la loro Ka), prendere in affitto tutta o parte di una fabbrica, seguire l’esempio di Volkswagen (o di altri, come Bmw e Mercedes) o appoggiarsi all’organizzazione produttiva di Cnh (quindici gli impianti disseminati negli Usa, quattro o cinque dei quali potrebbero essere presi in considerazione).
Anche in Messico, poi, è presente Chrysler (due fabbriche) e la stessa Fiat ha alcune attività.
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