Lo «sbirro» anti-Marino che ha fatto carriera servendo tutti i padroni

Ha indagato sulla strage dei Georgofili e sgominato le nuove Br, è passato con disinvoltura da Prodi a Berlusconi. Nel nome dell'interesse: il suo

Lo «sbirro» anti-Marino che ha fatto carriera servendo tutti i padroni

Il prefetto Franco Gabrielli, lo «sbirro» che con disinvoltura sfotte il sindaco Ignazio Marino un giorno sì e l'altro pure, appartiene a una categoria di persone cui l'Italia non riesce a rinunciare: i salvatori della patria, i «super-tecnici» spesso diventati politici. Che poi ce la facciano è un altro discorso; da Carlo Cottarelli a Enrico Bondi (commissari alla spending review) passando per Mario Monti, Elsa Fornero e gli altri professori, il successo è una scommessa. Ma Gabrielli conta su armi efficaci: è ambizioso, riservato, tenace, e sa fare surf tra i governi con un'abilità rara.

Il nuovo proconsole romano è passato in scioltezza da Prodi a Berlusconi e poi da Letta a Renzi in un crescendo di incarichi, responsabilità e redditi. Ha messo a frutto la rara perizia investigativa, culminata nello smantellamento delle nuove Br che avevano ucciso Marco Biagi e Massimo D'Antona, per avviare una nuova carriera da alto funzionario pubblico. Un «civil servant», per dirla all'inglese, un servitore dello Stato pronto alla bisogna e buono per qualsiasi premier.

Gabrielli ci tiene a mostrarsi bipartisan, uomo delle istituzioni e non dei partiti, ma i rapporti con la politica sono radicati. Da studente di giurisprudenza (a Pisa) era segretario dei giovani Dc della sua città (Massa) e divenne capo dello staff di Renzo Lusetti, allora segretario nazionale, area Zaccagnini-De Mita. Lusetti, reggiano come Prodi e il cardinal Ruini e futuro assessore a Roma con Rutelli, era affiancato da giovani promesse chiamate Enrico Letta, Dario Franceschini, Angelino Alfano e Simone Guerrini, oggi capo della segreteria di Sergio Mattarella al Quirinale. Questo era l'ambiente del giovane Gabrielli. Il quale però è un operativo e preferisce stare dietro le quinte, investigare, preparare dossier.

«La sua vera passione era l'intelligence», raccontò Lusetti. Così nel 1985, fresco di laurea, Franco vince il concorso in polizia ed entra nella Digos (criminalità politica) prima a Imperia e poi a Firenze, dove indaga sulla strage di via dei Georgofili come dirigente antiterrorismo. Nel 1996 sbarca a Roma alla Direzione centrale della polizia criminale dove si occupa anche della protezione dei pentiti di mafia; nel 2000 passa alla Digos della capitale e l'anno dopo, a 41 anni, ne diventa il capo. È lui a sgominare la nuova colonna di terroristi rossi e ad arrestare uno degli attentatori al metro di Londra. L'astro nascente della polizia viene promosso dirigente superiore per meriti straordinari (il più giovane d'Italia) e balza a capo dell'antiterrorismo. La fiction di Canale 5 «Attacco allo stato» con Raoul Bova è disegnata su di lui. È il quinquennio di Silvio Berlusconi premier, al Viminale siede Beppe Pisanu, il capo della polizia è Gianni De Gennaro, altro poliziotto di talento fino a presiedere Finmeccanica.

Per Gabrielli il grande salto si compie con il governo Prodi e il suo sottosegretario Enrico Letta: nel 2006, a soli 46 anni, lo «sbirro» diventa il numero 1 del Sisde poi trasformato in Aisi. Anni difficili. Il nuovo ministro dell'Interno, Roberto Maroni, nel 2008 lo sostituisce. Lui prende una cattedra di Analisi criminale all'università dell'Aquila, una città che segna il suo destino: qualche ora dopo il terremoto del 6 aprile 2009 il governo lo nomina prefetto. L'edificio sbrecciato con la scritta «Palazzo del governo» è il simbolo della catastrofe.

L'Aquila è un tornante nella vita di Gabrielli: il superpoliziotto e 007 si tramuta nell'uomo delle emergenze. Lavora senza sosta, guadagna la fiducia di Guido Bertolaso e Gianni Letta. Collabora a organizzare il G8, vieta la protesta delle carriole e avvia un'operazione trasparenza negli appalti. Nel 2010 è l'unico vero candidato alla successione di Bertolaso anche se nel governo qualcuno avrebbe preferito altri nomi. Perché Gabrielli non è Bertolaso: non conquista giornali e tv, alla felpa preferisce giacca e cravatta, non nasconde il piglio autoritario da «sbirro», un appellativo che rivendica con orgoglio. Le sciagure si succedono: bufere di neve a Roma e sulle autostrade, alluvioni in Liguria e Costa Smeralda, terremoti in Emilia e Garfagnana, la Costa Concordia al Giglio. I soccorsi sembrano sempre intempestivi e Gabrielli si difende da burocrate: «Ci hanno tolto competenze e soldi». Il suo conto in banca però non ne patisce: nel 2005 all'antiterrorismo guadagnava 86mila euro mentre alla Protezione civile ha toccato anche i 300mila.

Su di lui si addensano anche ombre giudiziarie, come le indagini sulla ricostruzione in Abruzzo e sui centri di accoglienza per immigrati: dall'aprile 2011 al 31 dicembre 2012 è il commissario incaricato di affrontare la prima massiccia ondata di sbarchi dalla Libia. Il suo nome finisce perfino nei dossier che Gioacchino Genchi preparava per il pm Luigi De Magistris nell'inchiesta «Why Not». Il prefetto non è coinvolto, il suo operato sovrasta i sospetti e dopo Berlusconi anche Mario Monti, l'amico Enrico Letta e Matteo Renzi lo confermano al Dipartimento disastri. Ma l'immagine dello sbrogliamatasse ne patisce. Gabrielli si prende una parziale rivincita quando fa rimuovere il relitto della Concordia, nonostante i violenti attacchi del Pd toscano. Il segugio ambisce a fare il capo della polizia. Renzi invece lo riporta nella Roma devastata dall'inchiesta Mafia capitale come prefetto per tenere al guinzaglio il sindaco Marino.

È la «terza vita» di Gabrielli, dopo quella da 007 e da pronto intervento. Le sue dichiarazioni taglienti («non escludo il commissariamento di Roma», «sento il sindaco tra un'immersione e l'altra», «non farò il notaio») lasciano pochi dubbi sulle sue intenzioni. Mani libere e poteri quasi pieni senza passare per le urne: è l'ambiente ideale per l'ex superpoliziotto.

E anche Renzi è tranquillo perché Gabrielli non ha intenzione di fargli ombra. Non vuole imitare i prefetti Bruno Ferrante (Milano), Mario Morcone (Napoli) e Annamaria Cancellieri (Bologna) ai quali la politica ha portato soltanto sfortuna.

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