«La Scala, che sogno! Corriamo a dire grazie alla Madonnina»

M ilano, mercoledì 22 novembre 1950.
«Titta, muoviamoci: non c'è tempo da perdere». Il grande giorno era finalmente arrivato. Maria era al settimo cielo: aveva vissuto in attesa di quello. Aveva costruito ogni tassello della sua carriera in funzione di quello. E per giunta il miracolo era avvenuto proprio il giorno di Santa Cecilia, patrona della musica. Corse davanti al bel quadretto della Sacra Famiglia, che teneva sul comodino della camera da letto, a rivolgere una veloce preghiera. Lei se lo sentiva. Prima o poi sarebbe successo. Per questo qualche anno prima aveva convinto il suo Titta a lasciare Verona e a prendere una villetta in piazza Buonarroti, in una delle zone più verdi e signorili di Milano. C'era perfino un piccolo giardino per il loro bambino: un barboncino nero, Toy, che per Maria era come un figlio. È vero, loro due ormai erano sempre in giro per il mondo. Erano stati in Messico per qualche mese, avevano girato l'Italia in lungo e in largo, ma Milano significava la Scala e soltanto in quel teatro, in quella cattedrale della musica lei sarebbe diventata la Callas (...)
Toscanini era la Scala. Nessuno poteva mettere piede in teatro senza la sua benedizione. E lei alla Scala ci doveva assolutamente arrivare. Da lì avrebbe incominciato a essere per tutto il mondo la divina Callas. «Maria ha ragione: non c'è assolutamente tempo da perdere. Bisogna pianificare tutto al meglio» pensava Battista. Quello era l'incontro che avrebbe determinato la vita o la morte di sua moglie. Con Toscanini Maria Meneghini Callas sarebbe entrata nel teatro più prestigioso del mondo dall'ingresso principale.
(...)«Maria, il maestro ha fissato per lunedì prossimo, il 27. Ci aspetta a mezzogiorno a casa sua». Maria era superstiziosa fino alla paranoia. Per lei quella data era tra le più significative della sua carriera. «Titta, questo è un segno che viene da Dio. Il 27 novembre del 1940 io ho debuttato in Boccaccio con il Lyric Theatre di Atene. È stata la mia prima opera lirica in teatro. E adesso, a distanza di dieci anni, se tutto va come spero, canterò per Toscanini. Avanti, usciamo. Dobbiamo andare a ringraziare la nostra Madonnina in Duomo». Maria amava quella Madonnina: ci andava non appena arrivava nella sua Milano. Faceva parte dei suoi riti: la candela in Duomo, il caffè da Cova, la passeggiata in Montenapoleone. «Non ho niente da mettermi per lunedì. Come si fa?» disse Maria, aprendo il guardaroba. Il suo Titta aveva una risposta a ogni domanda, aveva una soluzione a qualsiasi sua necessità. «Domani mattina ti porto io nella sartoria dei signori. L'ho letto sul Corriere della Sera. Si chiama Biki. Vanno tutti da lei. Ha il negozio in centro. Per Toscanini dovrai essere elegantissima, amore mio adorato». L'indomani Maria e il suo Titta erano dalla Biki alle dieci del mattino. La commessa non era abituata ad aver gente in negozio prima di mezzogiorno. Le signore, quelle vere, non si svegliavano mai prima delle dieci. «È lei la signora Biki?» fece Meneghini col suo piglio da commendatore. «Oh no, signore. Madame non scende in negozio prima delle undici. Desidera qualcosa?» «Le dica di scendere che c'è la signora Meneghini Callas da vestire». La commessa di Biki non era abituata a quelle maniere. E poi Madame si sarebbe scomodata solo per qualche selezionatissima cliente. Squadrò da capo a piedi la signora Meneghini e si mise a sorridere: era un donnone. E la Biki vestiva solo donne grissino. La moda di quegli anni non contemplava le taglie forti. «Signore, io non credo che Madame si possa disturbare. Lei è...». «Senta, signorina, io sono il commendator Meneghini» disse, tirando fuori il suo portafoglio in coccodrillo. «E qui si paga in contanti. Ha capito?» Maria era eccitata dalle maniere forti di Titta. Le piaceva che lui si sentisse in prima linea ogni volta che c'era da prendere le sue difese. Dopo mezz'ora Biki scese in negozio, visibilmente seccata. La sua commessa le aveva riferito che era arrivata una tale signora Meneghini Callas. Un nome assolutamente insignificante per lei. Era una donna minuta, di un'eleganza davvero straordinaria. Anche di primo mattino. A Madame bastò una rapida occhiata per inquadrare i due clienti: erano degli orrendi «parvenus». Le gambe di quella Meneghini Callas erano mostruose, le braccia sembravano salsicce. E poi aveva un ridicolo cappellino color verde malva con la veletta di prima mattina. Roba da far impallidire i morti. «Oh, mon Dieu» fu l'unica cosa che si lasciò scappare. «Sono il commendator Meneghini, cara signora Biki. Sono qui per mia moglie, la celebre...» «Mi dispiace, signor Meneghini, ma non possiamo accontentarvi» tagliò corto Biki, sfoderando il più falso dei suoi sorrisi. «Non abbiamo taglie per la sua signora. I nostri modelli non si addicono al suo stile, così... ehm... imponente». «Ma si possono fare le eccezioni, io pago molto bene. E sempre in contanti» aggiunse Titta. Maria, che fino ad allora aveva seguito la scena in silenzio, non si era lasciata trarre in inganno dalle false adulazioni di quella signora. «Lei non è certo una signora, adesso capisco bene perché la chiamano tutti soltanto Biki. Mi guardi bene in faccia» le disse, afferrandola per un braccio. «E cerchi di stamparsela bene in testa. Questa faccia appartiene a Maria Meneghini Callas. Quando entrerò nel suo negozio, se mai ci sarà una prossima volta, non avrò bisogno di commendatori né di biglietti da visita. Se lo ricordi. E badi bene: io mantengo sempre le mie promesse».

Se ne andò, senza neppure salutare, lasciando nel negozio di via Montenapoleone una Biki sbigottita. In quella donna c'era già la tempra della Divina. Bisognava solo aspettare che spiccasse il suo volo.
(Tratto da «Troppo fiera, troppo fragile. Il romanzo della Callas» di Alfonso Signorini)

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