La Scala torni la capitale dell'eleganza

Perché il dress code al Piermarini non salva dalla perdita del buon gusto, ma aiuta

La Scala torni la capitale dell'eleganza

Però se ti invitano a un matrimonio, come dire: lo sai già che non devi andarci in canotta e infradito, e se fosse un matrimonio, La Scala, lo sarebbe del Duca di Windsor, non di tuo cugino in Florida, e queste cose le sa anche uno scemo, ergo: c'è poco da fare. Noi possiamo anche stilarlo, un dress code, ma un brain code no. Quello scaligero, di dress code, ora vieta espressamente pantaloncini, ciabatte, canottiere ed è giusto, hanno fatto bene, ma il vero problema è perché si sia reso necessario.

Non è solo per le eccezioni. Non è per tanto per la signora che in prima fila si presentò in infradito e short. Non è per il turista statunitense che si presentò a una recita di Traviata in tenuta letteralmente da spiaggia. Il problema è la caduta mondiale del formalismo, non quell'altra tizia che durante un Wagner fu immortalata in sandali di gomma e pareo etnico, o altre gentildonne svestite da piscina o coi pantaloncini cargo con tasconi. Nel loggione, dove la passione batte il portafoglio, una certa informalità si è sempre tollerata, ma in platea non puoi vietare tutto: i piumini catarifrangenti, i cappellini da rapper, gli zaini da escursionismo, i jeans slabbrati, le sneaker fosforescenti, le borse a tracolla XXL, e ancora le ciabatte, sempre le maledette col calzino da arresto. Non puoi vietare la gioventù, l'ignoranza, magari ecco, la sciatteria sì, puoi prevenirla, ma come si scrive, come si giudica? L'unica è dire che a un matrimonio e a una cena stellata non ci si va in pigiama, spiegare che cos'è un teatro storico e che vestirsi bene è vestire l'attesa, prepararsi all'incanto, non a un'apericena. Ma serve? L'educazione, il decoro e il senso del luogo in teoria esistono ancora. Sandro Pertini, la prima volta che incaricò Craxi da presidente del Consiglio, lo mandò a cambiarsi perché si era presentato in jeans al Quirinale.

Il dress code l'aspettavamo da una vita, o perlomeno dal 2015, quando il sovrintendente Alexander Pereira cercò di dire che il vestirsi "non è importante": un accidente, era già da una vita che alla Scala sarebbe servito un buttafuori, uno che scaraventasse via dal Teatro certi mostri descamiciati e globalizzati di derivazione Expo, i vecchiacci originaloidi che in certe "prime" decembrine vestivano come Fedez e certe tiratissime dame infiocchettate come uova di Pasqua garzate, velate, roba da meretricio d'alto bordo. Non mancavano creativi estetizzanti che si rivelavano bovari del buon gusto e filosofi francesi con la camicia aperta, oltre a soubrettes vestite da gianduiotti ed eserciti di racchie che erano sposate bene e vestite peggio. Questo però a un certo livello: al più basso, per contro e di conseguenza, eccoti rinnovati sciami che invadevano il tempio di Piermarini con torpedoni di magliette, calzette, bottigliette, borraccette e schiscette. Non è che risolvi tutto scrivendo "giacca e cravatta", perché poi, magari, la giacca è texana e la cravatta è tipo spago. Il citato sovrintendente Pereira era un austriaco con esperienze in teatri tedeschi e svizzeri dove il pubblico si è sempre agghindato in maniera incolore e triste, sformato, da zia americana, le ragazzine con le scarpette e gli occhialetti da infelici, le mogli con le capigliature vaporose e i gioielli da televendite, i mariti con l'appeal da professori di matematica: l'Italia è un'altra cosa, sarebbe quella dell'eleganza e degli stilisti, non c'è da fare i popolani, un dress code serviva e, anzi, ne servirebbe uno ancora più severo. Tutti i discorsi soliti tipo: non bisogna far sentire la gente inadeguata, bisogna accorciare le distanze col mondo della classica, d'estate fa caldo, eccetera - non c'entrano niente col comprendere che La Scala non è lo stadio Meazza e che basterebbe una giacca sobria e non chiassosa, persino i jeans, magari una maglia scura senza scritte, e quindi, insomma, comprendere che esistono milioni di combinazioni a metà strada tra la "giacca e cravatta" e i sandali coi crackers in mano.

Il problema è che l'espressione "buon gusto" è quanto di più soggettivo esista al mondo. A voler sottilizzare, neppure nella buca dell'orchestra spesso si salvano: sobrietà e pacchianeria spesso convivono con vestiti neri e sbracciati che trasformano le ventenni in signorotte ed esaltano i rotolini di grasso delle più anziane, mentre le scarpe lucide degli uomini sembrano quelle (finte) che a Napoli indossano i morti. A proposito: il mitico critico musicale Paolo Isotta, diversi anni fa, si lamentò delle cantanti "indossanti gonne con spacco fino all'inguine, trucco da travestiti di circonvalazione esterna" dalle quali "partiva un olezzo marzolino di deodorante ascellare". Certi direttori, aggiungeva, indossavano il frak "come un costume teatrale, da pagliaccio" o peggio "con gilet che si prolungano sullo scroto".

Guai ai gilet che si prolungano sullo scroto, ma intanto noi ci accontentiamo: no Texas, no spiaggia, no cheesburger, no cellulari, no caramelle sgranate, no vestiario sulle ginocchia (il guardaroba è gratuito) e sì Milano che torni capitale dell'eleganza, da non confondersi (mai) con capitale della moda.

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