Scalfari insegna come si fa il vero saluto fascista

Scalfari insegna come si fa il vero saluto fascista

da Roma

Vedi alla voce lungo viaggio attraverso il fascismo, come nel titolo di un romanzo simbolo di Ruggero Zangrandi, quello che raccontava in forma autobiografica la storia di una generazione partita con la divisa da Balilla, per arrivare all’antifascismo. Ieri, nei giorni in cui infuria la polemica sul passato «fascista» di Giorgio Almirante, mentre si discute su strade, toponomastica, padri della patria, il colpo lo ha fatto il Foglio di Giuliano Ferrara con un’intervista di Pietrangelo Buttafuoco, in cui Eugenio Scalfari padre nobile del giornalismo italiano, racconta la sua giovinezza in camicia nera. È un racconto franco, senza filtri, come dice Buttafuoco «con spirito e con una punta di orgoglio». Un racconto che fa da contrappunto a una giornata in cui fra mille polemiche, oltre a quelle di Almirante (ricordato in aula dal deputato del Pd Emanuele Fiano) sono riemerse dagli archivi anche le citazioni razziste, di tanti altri padri nobili della Repubblica. La più choccante? Quella di Giorgio Bocca che sul Giornale fascista di Cuneo nel 1942 scriveva recensioni ai Protocolli dei Savi di Sion (un noto testo antisemita) e si lasciava sfuggire affermazioni come queste: «Questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù». Ieri, su La Stampa Antonella Rampino chiedeva all’editorialista di Repubblica: «Sorpreso di questo ripescaggio?». E lui: «Sono anni che mi rompono l’anima per qualche frase che ho scritto in gioventù». E subito dopo «mi pare di aver pagato abbastanza per quel peccato veniale».
Tutto diverso invece il tenore della rievocazione di Scalfari: «Faccio mio il titolo del libro di Ruggero Zangrandi, è un’intestazione che ben si aggrada al mio racconto...». E poi «i miei sono solo i ricordi di un signore di 84 anni, ma ho l’abitudine di non aggiustarli i ricordi». E che ricordi! Ad esempio quel giorno che venne convocato a Palazzo Littorio: «Io abitavo a Roma a quel tempo, da mia nonna. Era una voce femminile che mi parlava alla cornetta: “È il fascista Eugenio Scalfari che ascolta?”, emozionato mi qualificai: certo, dissi, sono io. “Deve presentarsi domani a Palazzo Littorio”. In divisa ovviamente». E il fondatore di Repubblica. «Io adoravo la divisa. E fui meticoloso nella vestizione di quel mattino. Era molto elegante la tenuta. Avevo la giacca - quella che al tempo si chiamava la sahariana - i pantaloni grigio-verde a sbuffo alto, le losanghe sulle spalle, idem sulle maniche, con le stelline, quindi il fazzoletto azzurro e la camicia. Nera naturalmente». Ed ecco le memorie del Ventennio: «Credevamo che il mondo si fermasse alla nostra piccola serra. Eravamo le piante costrette a crescere in quel vivaio. Cosa potevamo sapere di quello che c’era fuori». E ancora: «L’Italia che tornava grande al cospetto del mondo cantava con noi ragazzi E se la Francia non è una troia Nizza e Savoia c’ha da tornà». Oppure, con altro aneddoto irresistibile quando il giovane Scalfari viene convocato da Carlo Scorza, fondatore del Fascio di Lucca, vicesegretario del partito per rispondere di alcuni articoli che aveva scritto. Scorza ha tra le mani i suoi neretti pubblicati su Roma Fascista. Dice: «Li hai scritti tu camerata?». Il dirigente fascista gli chiede: «Camerata dammi i nomi di questi mascalzoni che lucrano sul lavoro dell’Italia proletaria e io li farò arrestare!». Oggi, a quel ricordo, il fondatore di Repubblica è impietoso: «Io non ho nomi da dargli, la mia leggerezza professionale non può trovare giustificazione alcuna. Non posso neppure balbettare un si dice un mi pare, un è risaputo che Scorza comincia a urlare: “Sei un irresponsabile! Un calunniatore”. A questo punto si ferma e mi chiede: “E perché non sei a Bir el Gobi?”. Bir el Gobi - ricorda Scalfari - è un avamposto del deserto africano difeso dai ragazzi dalla Gioventù italiana del littorio. Io trovo la risposta più fessa, gli dico: “Veramente avrei il rinvio universitario”». Insomma, una militanza e un’appartenenza difficile, lacerante, un lungo viaggio che finisce a 18 anni «giorno dopo giorno prendo coscienza che forse avevano avuto ragione a espellermi dal Guf. Forse non ero fascista. Mi costò tanto sforzo venirne fuori: uscii dal fascismo brancolando. Non sapevo nulla, certo, conoscevo Benedetto Croce perché pubblicava. Anche Montale, Ungaretti, Quasimodo. Avevo cognizione di tutto ciò ma ignoravo Gobetti, Gramsci, i martiri uccisi dai sicari del regime.

Non avevo idea su chi fosse Togliatti, e non sapevo che farmene della decrepita Italia liberale smantellata dalla vera modernità di Mussolini». Quanta differenza, rispetto a quel Giovanni Spadolini che nel ’44 scriveva contro i «detriti del giudaismo», per poi dimenticarsene nella sua seconda vita da repubblicano pochi anni dopo.

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