Lo scandalo è anche questo: che fine fanno gli aeroporti?

di Carlo Maria Lomartire

Che l’acquirente «predestinato» di Sea fosse il fondo F2i di Vito Gamberale è stato chiaro fin dai primi vagiti della giunta Pisapia, fin dalla comparsa di Bruno Tabacci sulla scena di Palazzo Marino. Perciò il caso scoppiato in questi giorni sembra tanto la classica scoperta dell’acqua calda: di quella «predestinazione» si è infatti discusso più volte e animatamente in Consiglio comunale, se ne è scritto sui giornali, su alcuni di più, su altri di meno. All’inizio erano solo «malignità» e «volgari illazioni». Che poi però sono diventate qualcosa di più quando F2i, unico partecipante alla gara - a parte la maldestra e comoda partecipazione del fondo indiano Srei - ha vinto offrendo un euro di più della base d'asta, provocando reazioni diverse, tranne la meraviglia.
Ora, però, è impossibile per la strana coppia Pisapia-Tabacci andare avanti come se non fosse successo niente, come se la disinvolta telefonata fiorentina di Gamberale con un esponente del Pd non esistesse (anche se per la procura di Milano, occasionalmente distratta, a lungo quella telefonata non è esistita). Ma a Palazzo Marino, nonostante aumenti di tasse e tariffe e nuovi balzelli tipo Area C, hanno un gran bisogno di quei soldi, di quei presumibili 600 milioni. Perciò, se si è costretti a scartare l’acquirente privato predestinato, non resta che portare la Sea in Borsa. Ohibò! Ma è quello che voleva fare Gabriele Albertini già una dozzina di anni fa. Voleva collocare a Piazza Affari il 33 per cento di Sea. Non ci è riuscito. Perché nonostante l’ex sindaco sia un tipo notoriamente testardo, per anni, fino alla fine del suo secondo mandato ha incontrato ostacoli e opposizioni di ogni tipo. Ostacoli burocratico-societari e fortissime opposizioni da parte della sinistra (ma non solo, anche dalla Lega, ad esempio) fondate sulla solita retorica statalista-municipalista secondo cui «non si vendono i gioielli di famiglia». E infatti alla fine non se ne fece nulla. Peccato perché, tra l’altro, col ricavato di quell’operazione Albertini si era impegnato anche a finanziare un’opera importantissima per Milano, una infrastruttura culturale come la Beic, la grande Biblioteca Europea. Poi ci ha provato anche la Moratti, sebbene con minore impegno. Stessa durissima opposizione, stesso inevitabile flop. Ora, improvvisamente, è la sinistra che scopre la Borsa e si rivela disposta a «vendere i gioielli di famiglia», anche se, per la verità, avrebbe preferito venderli a qualcuno gradito, predestinato.
E a questo proposito, con quali vincoli strategici Tabacci intendeva vendere la Sea? Su quali obiettivi, cioè, avrebbe dovuto impegnarsi l’acquirente? È impensabile, infatti, vendere a un privato una importante utility come la società di gestione degli aeroporti di Milano, cioè dei milanesi, senza saper cosa questo privato ne avrebbe fatto.

Avrebbe cercato di riportare La Malpensa al rango che le spetta di grande hub intercontinentale? Sarebbe andato avanti col piano di sviluppo dello scalo, a cominciare dalla realizzazione della terza pista? Si sarebbe battuto contro le condizioni di monopolio di cui gode Alitalia, in particolare sulla costosissima tratta Roma-Milano, che privilegiano Fiumicino? E che ne sarebbe stato di Linate? Di questo e di altro si sarebbe dovuto e si dovrebbe ancora oggi parlare prima di decidere a chi vendere. Anzi, proprio per decidere a chi vendere. I milanesi hanno il diritto di sapere che ne sarà dei loro aeroporti.

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