Spettacoli

Schwartz, angelo e demone della poesia americana

Per la prima volta esce in Italia un'antologia di versi dell'autore amato da Bellow e Lou Reed

Schwartz, angelo e demone della poesia americana

In un passaggio, Saul Bellow scrive che «era impossibilmente bello». E poi scrive, riferendo le parole di Von Humboldt Fleisher, cioè di Delmore Schwartz, «E da ultimo ricorda, non siamo esseri naturali, siamo esseri soprannaturali». Nato nel 1913 a Brooklyn da ebrei rumeni, cresciuto per lo più orfano genitori divorziati, papà che muore quando lui è ragazzo, piccola eredità che gli consente di frequentare la New York University Delmore Schwartz sembrava un angelo. Era bello, soprannaturale, impossibile. Sembrava uscito da uno dei rotoli apocrifi del Primo Testamento, il Libro dei Vigilanti, per dire, che brulicano di angeli meravigliosi e crudeli, sembrano vampiri. Ai confini del mondo, è detto, ci sono le inquietanti prigioni degli angeli ribelli. Dell'angelo, Delmore Schwartz portava lo stigma: l'ascesa, incredibile; la caduta, micidiale; il volto, abbacinante. Incline a clamorose tenerezze «Cerchiamo di essere informati sulle autentiche enigmatiche divinità», attacca in una poesia dedicata a L'amore e Marilyn Monroe non poteva essere amato: tutto ciò che Delmore tocca questo è il carisma, la condanna deperisce, muore. Eppure, chi passa attraverso Delmore, chi si nutre della sua carne, risorge, diventa un genio.

Per sdebitarsi con lui, Saul Bellow ha scritto un romanzo, Il dono di Humboldt, dedicato agli anni gloriosi di Delmore Schwartz, «scrittore d'avanguardia... bello, biondo, corpulento, serio e spiritoso, colto. Insomma, aveva tutto». Il romanzo gli consentì il Pulitzer, nel 1976. Delmore Schwartz era morto dieci anni prima, d'estate, al Columbia Hotel. Vagava di albergo in albergo. Reprobo e recluso. Angelo alienato. Pare che prima abbia distrutto la camera. Aveva 52 anni. Lou Reed, un altro graziato dal genio angelico e scismatico di Delmore, in una memoria del 2012, O Delmore How I Miss You, lo ricorda nei suoi ultimi anni. Era il suo insegnante alla Syracuse University. «Eri troppo bravo per sopravvivere. Le ispirazioni ti hanno carpito. Le aspettative. La fama... Ho idolatrato il tuo ingegno e la tua conoscenza, immane. Sei e sarai sempre il solo». Per tre giorni nessuno ha reclamato il corpo di Delmore Schwartz, l'angelo ribelle della poesia americana. C'è qualcosa di cristico in questo. La lurida stanza del Columbia Hotel come il sepolcro vuoto. Non bastarono tre giorni a Delmore per risorgere.

Eppure, ha ragione Saul Bellow. Delmore Schwartz aveva tutto. Nel 1938 pubblica In Dreams Begin Responsibilities: la raccolta di racconti edita, in Italia, da Neri Pozza piace un po' a tutti. Thomas S. Eliot, il suo poeta prediletto, sommo cardinale della modernità, ne è affascinato, gli scrive. Secondo Vladimir Nabokov, di cui è nota l'arguzia, crudele, il racconto che dà titolo al libro è uno dei più belli della letteratura americana, insieme «a un'altra mezza dozzina». Ma Delmore, per lo più, prima di tutto, è poeta. La sua poesia è vertiginosa e spiazzante, elettrificata da un talento spietato, rigorosissimo, che annienta per autorevolezza. «Sono un poeta dell'asilo (urbano)/ e del cimitero (metropolitano)/ Dell'estasi e del ragtime e anche della città nascosta nel cuore e nella mente», scrive in America, America!, poesia sacrificale, sbandierata come titolo per la prima antologia lirica di Delmore Schwartz pubblicata in questo Paese poeticamente stitico, evviva, evviva (ci è voluto un piccolo, audace editore marchigiano, di Senigallia, Ventura edizioni, pagg. 262, euro 15; la traduzione è di Angelo Guida). La poesia di Delmore Schwartz mitiga l'entusiasmo di Walt Whitman che si ravvisa, ad esempio, nel lungo poemetto La domenica pomeriggio lungo la Senna di Seurat: «Cosa contemplano? Il fiume?/ Il sole che illumina il fiume, l'estate, l'ozio,/ O l'opulenza e il nulla della coscienza?» in barometri barocchi, alterna piscio e incanto («Oh Amore, oscuro animale,/ Le tue stranezze ti fanno sembrare/ Un eccentrico o un pagliaccio:/ Consola la bambina che è in lei/ Perché è sola»). Come l'angelo contraffatto, catramato di dolori, Delmore Schwartz disseziona la civiltà «A quattro anni la natura è impervia,/ Enigmatica e misteriosa. Anche// Un bambino di città lo capisce, ascoltando la metropolitana/ Borbottare nel sottosuolo...» , prende per mano l'uomo, di cui conosce le scaturigini del pianto, lo porta in un «interminabile viaggio notturno verso il noto insondabile abisso» (Per tutta la notte).

I padri di Delmore Schwartz sono William Blake, Friedrich Hölderlin e il libro di Giobbe; presso la Beinecke Library, a Yale, si può sfogliare, anche in digitale, la sua copia annotata del Finnegans Wake di Joyce, opera di adamantina dedizione. «Sovrano e re di tutti i poeti»: così Delmore Schwartz scriveva di James Joyce. Aveva una grafia infantile, da ragazzo imperituro, scriveva in stampatello: martoriava i testi di correzioni.

Charles Bukowski lo ammirava, da incazzato, «davvero, era una puttana più che un bardo / la sua poesia, così leziosa e delicata». Delmore Schwartz appartiene al lignaggio più nobile della poesia americana, e dunque negletto, è dalla parte dei visionari, gli Hart Crane, gli Allen Tate, i Robert Penn Warren, i Robinson Jeffers. Poeti ostinati e ostili, che con la lingua hanno costruito un mondo, un'epica, un'epoca, a cui bisogna conformarsi senza conferme, pretendono obbedienza.

Quando ottenne il Bollingen, nel 1959 il poeta più giovane a cui sia mai stato assegnato quel premio aveva già bruciato due matrimoni, infilandosi nel tumulto della depressione. Dieci anni prima, il Bollingen era andato a Ezra Pound, con cui Delmore intratteneva, da tempo, un furibondo scambio epistolare. Litigavano intorno all'importanza di Tommaso d'Aquino nella Divina Commedia. Nel 1938, su Poetry, Delmore Schwartz aveva scritto un lungo studio sui Cantos, dal titolo Ezra Pound's Very Useful Labors: ne riconosceva l'importanza fondamentale, il fondamento di una poesia nuova, sprezzante; preferiva W.H. Auden e Eliot. «Trovo le tue osservazioni sui semiti, o sulla razza ebraica, dannose... dò le dimissioni dai tuoi ammiratori e studiosi più fedeli», gli scrisse, l'anno dopo.

Alcune poesie sono memorabili e folli. La più nota quella che piace di più a Lou Reed s'intitola L'ingombrante orso che cammina con me e inizia così: «Un variegato miele imbratta il muso/ Dell'ingombrante orso goffo e sgraziato/ Che mi segue dappertutto». In un saggio del 1951, The Vocation of the Poet in the Modern World, Delmore scrive che «in poesia, molti sono i chiamati e pochi gli eletti». Cosa vuol dire? Che molti scrivono poesia e pochi, pochissimi sono poeti. Uno dei caratteri dell'eletto alla poesia, secondo Delmore Schwartz, è la «rinuncia»: per non perdere la vocazione bisogna rinunciare a tutto. Soprattutto, rinunciare a se stessi. Perdita, perdizione, spoliazione sono i criteri che fondano il carisma del poeta; «né il perdono né la grazia vengono elargiti alla poesia, ai poeti, alle poesie», scrive Delmore Schwartz in The Poet.

Ovviamente, morì solo e dimenticato, il poeta, imbarcato nella propria turpe miseria. Lo trattavano come un ubriaco, un insolito insolente: d'altronde, che senso ha un poeta nel mondo delle atroci macchine? «Quanto a me, mi sentivo come uno che cade,/... che precipita senza sosta e sente l'immensa/ Corrente dell'abisso trascinarlo sempre più giù,/ Un pagliaccio sconvolto e impotente coinvolto in un'incessante caduta», scrive. Paul Celan ha cantato il potere del «sedicesimo Salmo», che «ti manda un bagliore attorno/ all'angolo destro della bocca». Chissà quale salmo ha sbavato Delmore Schwartz mentre moriva, perché il poeta lo capisci lì, nel punto in cui muore; chissà se gli angeli hanno fatto scempio del suo cadavere, appena prima o appena dopo.

All'origine di ogni grande poesia c'è il corpo morto del poeta: i lettori devono lucidarlo con l'olio, purificarlo con l'issopo.

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