Lo scoiattolo che rosicchiava le coscienze

La feroce polemica con Gabriele D’Annunzio su Fiume, un romanzo choc, le sedute spiritiche... La sua vita fu una continua provocazione. Fino al libro che conquistò Pio XII

Anziché censurarli per la frivolezza, il regime sovietico spalancò le porte dell’Urss ai suoi romanzi. Piacevano alle alte sfere per l’irreligiosità che sprizzavano da ogni riga. Anche le trame viziose, infarcite di alcove, profumi e adulteri facevano gioco alla propaganda che amava mettere in risalto la decadenza capitalistica. A occuparsi della diffusione, fu addirittura Lunaciarskij, il commissario del popolo all’Istruzione. Con la trasposizione in russo, la sedicesima lingua in cui la sua opera veniva tradotta, il Nostro divenne l’italiano più letto degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Seguiva distaccato un D’Annunzio in declino che aveva contribuito, suo malgrado, a rendere famoso il giovanotto ai suoi debutti.
I fatti, accaduti nell’immediato primo dopoguerra, si erano svolti così. Il ventisettenne, un autentico libertino, aveva intrecciato una storia di letto con la più che disinvolta poetessa Amalia Guglielminetti, storica amante di Guido Gozzano, morto da tempo. Costei, di dodici anni più grande, dopo averlo ribattezzato «efebo biondo», si era proclamata suo Pigmalione. Lo aveva introdotto nei salotti letterari di Torino, la città di entrambi, e di Roma. Aveva inoltre deciso che, per cominciare, sarebbe stato utile un tirocinio giornalistico. Col suo appoggio, il Nostro fu assunto dalla rivista romana L’Epoca che lo spedì a fare un reportage a Fiume, cuore dell’irredentismo italiano. Il neo giornalista, per farsi notare, ritenne suo dovere ironizzare su questo sentimento.
Scrisse un articolo dal titolo sarcastico, «Fiume città asiatica», in cui sbeffeggiava il nazionalismo istriano, dato per fiacco, e il desiderio di annessione, ritenuto inesistente. Divampò una polemica che mise sulla bocca di tutti il nome dell’autore. A completare l’opera, pensò D’Annunzio. Il futuro Reggente del Carnaro, che già covava l’impresa, non tollerò l’irriverenza e provocò il pivello alla spada. Il duello poi non ci fu, ma l’onore della sfida bastò a mettere le ali al moscardino.
Dopo questo exploit, il Nostro lasciò il giornalismo dipendente che detestava. I giornalisti, disse, «sono privi di idee perché devono sostenere quelle del direttore, il quale sostiene quelle degli azionisti». Innegabilmente, aveva capito molto del mestiere. Fondò più tardi una propria rivista che incise sul costume e lo mise talvolta in urto col fascismo, Le grandi firme. Soprattutto, cominciò a scrivere i romanzi che lo resero celebre tra le due guerre. Uno dal titolo eloquente, Cocaina, fu mal tollerato dai gerarchi più bigotti che ne ordinarono il sequestro. Seguì un processo per immoralità che finì felicemente per l’intervento di Mussolini a cui piaceva lo stile volterriano del Nostro. «Lui non è immorale, fotografa i tempi. Se la società è corrotta, non è colpa sua», disse il Duce con inusitata larghezza di idee. Una motivazione fatta propria dal tribunale che riammise il libro in circolazione.
La tresca con la Guglielminetti era finita da tempo, seguita da un corteo di avventure, quando l’ultraquarantenne convolò a nozze. Dalla prescelta, Deborah Senigallia, ebbe un figlio. Ma vuoi per la viziosità acquisita in passato, vuoi per gli impegni letterari che lo tenevano più all’estero che in casa, il vincolo non durò. Due anni dopo il sì, scrisse alla moglie da Parigi: «Certi uomini nascono per il matrimonio. Altri no. Abbia pazienza. Sei giovane. Rifatti una vita». Ti saluto e sono.
Una bomba nel 1942 centrò in pieno il suo studio, mandando in frantumi l’abitazione, i mobili antichi, i vasi precolombiani, gli autografi illustri collezionati, i libri raccolti nei viaggi. Inaspettatamente, non provò dolore. Era il segno, disse, che «dovevo ricostruire sul nuovo». Cominciò qui un travaglio che doveva portare il libertino nelle braccia del Signore.
Colpito dalle leggi razziali, restò durante la guerra al confino a Uscio, in Liguria. Qui si tuffò nello spiritismo. Cominciò scettico, ma si convinse presto dell’esistenza di un Aldilà. Seduto attorno al treppiede, parlò con i grandi nomi della poesia settecentesca, che in segno di riconoscimento dettarono splendidi versi. Celebri giuristi defunti stesero pareri tanto dotti da togliere ogni dubbio sull’autenticità. Esseri trapassati da secoli, comunicavano come fossero morti da pochi giorni raccomandando ai vivi di essere buoni e di pregare per loro. Così, mentre prima pensava che la morte fosse «redistribuzione di calcio, azoto e carbonio presi in prestito dalla terra», capì da queste esperienze che la morte era «principio e continuazione». La sua conversione era cosa fatta.
Nel 1948 pubblicò La piscina di Silo (il luogo evangelico in cui Cristo restituì la vista al cieco) annunciando di avere aperto gli occhi su Dio. Pio XII disse: «Ho letto il libro in una notte. Lo terrò con me tutta la vita». Il Nostro divenne a tutti gli effetti uno scrittore cattolico.

Cinque lustri dopo, morì ottantaduenne in pace e dimenticato.
Per disamore verso il padre, non ha mai firmato un libro col suo cognome. Si ispirò per lo pseudonimo al pellicciotto di scoiattolo del suo cappotto di bambino che la mamma chiamava petit gris.
Chi era?

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